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N°10 Pagine Marxiste - Ottobre-Dicembre 2005
Islam, petrolio e capitale nello scontro sociale
Iran

L’Iran è oggi una media potenza di 69 milioni di abitanti, ricco di petrolio e secondo solo alla Russia per riserve di gas. Etnicamente complesso (i persiani, indoeuropei, sono il 51%), l’adesione all’Islam sciita è il collante ideologico nazionale. Anche se formalmente organizzato come una democrazia (anche il Velayat-e-Faguih – guida suprema – è eletto), l’oligarchia dominante è ascesa al potere grazie a una rivoluzione sanguinosa e si è consolidata nel corso di una guerra contro l’Irak ancora più sanguinosa, avendo garantito l’indipendenza e la sovranità del paese.

La pesante ingerenza degli ulema nella vita privata e l’aggressività con cui impongono il conservatorismo nel costume crea l’impressione di un regime fortemente centralizzato: in realtà vi sono profonde divisioni e aspri scontri tra diverse frazioni della borghesia, ma in una clerocrazia come l’Iran le mediazioni avvengono dentro il clero sciita invece che nel Parlamento (così come nel fascismo o in URSS avvenivano dentro il partito). Esso domina oggi non tanto per un supposto fanatismo delle masse iraniane quanto perché è compenetrato nei gangli dello Stato, Stato che ha il controllo di buona parte della grande industria e della finanza e in particolare il monopolio delle rendite da petrolio di cui redistribuisce una quota imbrigliando molti strati sociali in una solida ragnatela di clientelismo e beneficenza.

L’Iran, in passato zona di influenza statunitense, sta cercando di giocare sulle contraddizioni tra gli imperialismi per giocare un proprio ruolo autonomo nella regione. Ambisce in particolare ad un ruolo guida fra i paesi mussulmani, pur ostacolato dall’adesione alla fede sciita, minoritaria nell’Islam, ma grazie alla quale è oggi in grado di esercitare una forte influenza sul vicino Irak. Con ciò si scontra con la strategia americana di modificare a proprio vantaggio i rapporti di forza interimperialistici nell’area.
Settori statunitensi scommettono su una possibile rivoluzione interna, in particolare dopo la recente elezione di un presidente a loro ancora più ostile.

La conoscenza della formazione economico-sociale e politica iraniana è importante per la comprensione del fenomeno Islam, delle forme politiche espresse dallo sviluppo capitalistico, delle lotte tra vecchie e nuove potenze. Questo articolo, il primo di una serie, intende mettere a fuoco la struttura economico sociale del paese.


L’epoca Pahlavi

La fuga dello shah dall’Iran, il 16 gennaio 1979, segna la fine della dinastia che dominava dal 1926, quando il generale nazionalista Reza Pahlavi aveva guidato la riscossa indipendentista contro l’occupazione russo-inglese. Come in altri paesi a giovane capitalismo, l’esercito in Iran ha esercitato in molte circostanze una supplenza nei confronti dei politici. Reza aveva un programma di modernizzazione analogo a quello di Ataturk in Turchia: formazione di uno stato laico, sviluppo dell’industria di Stato per armare l’esercito, abolizione dei privilegi delle consorterie religiose. Egli per primo tentò negli anni ’30 di rinegoziare a proprio vantaggio i contratti petroliferi con l’Anglo-Persian Oil Company inglese che dominava l’intera produzione petrolifera del paese. Non riuscendovi, espresse forti propensioni filotedesche che nel ’41 servirono a pretesto per un intervento anglo-americano (la Persia era la via di accesso più diretta per approvvigionare l’URSS). Gli alleati lo costrinsero inoltre a cedere il trono al figlio Mohammad Reza.
Alla fine della guerra si consolida un controllo americano sul paese, che i russi sono costretti per primi a lasciare. Poi quando nel ’51 il primo ministro Mossadeq nazionalizza la compagnia petrolifera, anche gli inglesi di fatto vengono estromessi.
Gli Usa salvando nel ’53 il trono allo shah (costretto all’esilio dai suoi contrasti con Mossadeq) ne fanno il proprio più fedele alleato militare garantendogli anche accordi più vantaggiosi per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi (il famoso fifty-fifty). Il filoamericanismo dello shah non gli impedì di stipulare accordi con la Germania o con l’ENI di Mattei (che nel ’58 gli offrì il 75% pur di scalzare le “Sette sorelle” Usa). A partire dal ’63 l’opposizione allo shah del clero sciita, inviperito per le espropriazioni dei beni religiosi (soprattutto proprietà terriere) e per l’abolizione dell’obbligo di essere musulmani praticanti per i funzionari dello Stato, trovò un centralizzatore in Khomeini, che interviene utilizzando le contraddizioni sociali determinate dallo sviluppo capitalistico. Lo shah aveva impostato un programma di industrializzazione accelerata centrata sul capitale di Stato. Le campagne si erano spopolate e in alcune città dell'Iran la popolazione era decuplicata in meno di vent'anni. Il clero sciita si trasferisce nei disordinati agglomerati delle periferie urbane che diventano le loro roccaforti. La struttura amministrativa e infrastrutturale del paese non regge i ritmi di sviluppo. Dopo l’aumento shock dei prezzi petroliferi nel ’73 l’Iran conosce alcuni anni di vacche grasse, il reddito pro-capite medio cresce fra il ’73 e il ’77 del 5-6% all’anno, ma aumentano ancora di più le differenze sociali. Nella seconda metà degli anni ’70 la diminuzione del prezzo del petrolio impedisce di portare a termine i grandi progetti industriali; inflazione e disoccupazione acuiscono lo scontro sociale.

La rivoluzione del ’79


Khomeini, protetto dalla Francia e violentemente antiamericano, prende il potere sull’onda di imponenti manifestazioni di piazza. E’ però il proletariato, nel quale sono inizialmente egemoni organizzazioni non islamiche, a fornire la massa critica alle proteste che (durate 18 mesi) rovesciano lo shah. Decisivo sarà lo sciopero di 33 giorni degli operai dei pozzi petroliferi nell’ottobre 1978; complessivamente negli scontri di piazza e negli scioperi i morti saranno 20 mila. I bazari (cioè i commercianti del bazar), organizzati nel Comitato di coalizione islamica, sono il polmone finanziario e la struttura organizzata della mobilitazione; essi operano coordinati col clero sciita. Decisiva è anche la disgregazione dell’esercito, demoralizzato dai continui scontri; parte dei reparti di stanza a Teheran e dei cadetti dell’aeronautica si ammutinarono e distribuirono armi ai dimostranti. Molti ufficiali tuttavia rimasero fedeli al re e furono giustiziati.

I corpi paramilitari

Il proletariato e le formazioni politiche che lo organizzano non reggono però lo scontro con la leadership khomeinista. Reclutando il sottoproletariato delle metropoli, essa forma varie organizzazioni paramilitari che non solo si sostituiscono ai consigli operai nel controllo delle imprese, ma attuano una feroce epurazione del movimento, schiacciandone le organizzazioni che si richiamano alla classe. Il trapasso alla nuova struttura di potere e la repressione della classe operaia sono facilitati dallo scoppio della guerra con l’Irak di Saddam Hussein, che attacca l’Iran nel settembre 1980. Il clima di resistenza patriottica che si crea consente al regime il pugno di ferro all’interno, grazie alle nuove formazioni paramilitari: le forze di sicurezza interna, Niruyeh Moghavemat Basij, e i Pasdaran-i Inqilab-i Islami (Corpo delle Guardie Islamiche della Rivoluzione), corpi militari speciali voluti da Khomeini, che non si fidava dell’esercito. Sono Basij e Pasdaran, forti di migliaia di volontari, organizzati in brigate d’assalto, a reggere il primo urto dell’invasione irachena presso il corso dello Shatt-el-Arab. L’esercito combatte lealmente, tuttavia a metà del 1982 il comando militare passa dagli ufficiali di carriera al clero. L’offensiva irachena è respinta, ma il conflitto si trasforma in una guerra d’usura nella paludi, in cui il governo iraniano, per risparmiare i carri armati, manda bambini e ragazzi sui campi minati. Nel 1988 a guerra finita i morti sono 350 mila da parte irachena e più di 750 mila da parte iraniana.

Grazie al ruolo svolto in guerra, mentre ai Basij restano i compiti di polizia interna (si valuta siano 40 mila, sotto il controllo del Ministero degli Interni), i Pasdaran (125 mila con la possibilità di mobilitare 400 mila riservisti) sono promossi a distinto corpo militare, ufficialmente riconosciuto (un po’ come avviene in Italia con l’assorbimento nello Stato fascista delle camicie nere), modernamente armato, con una propria componente terrestre, navale ed aerea. Essi sono posti al vertice dell’apparato militare-industriale gestito dal Ministero della Difesa, che promuove un intenso programma di produzione di armamenti (dai fucili d’assalto ai carri armati, dai piccoli sottomarini agli elicotteri), copiati da modelli russi, cinesi e nordcoreani, ma pur sempre “made in Iran”. Si calcola che il 15% dell’industria manifatturiera iraniana produca armi; per ora sono vendute a paesi marginali, come il Sudan, ma l’ambizione è di fare dell’Iran il principale fornitore del mercato africano. La spesa militare che era arrivata al 20% del PIL durante la guerra Iran-Irak, oggi è ancora intorno all’8%, tra i livelli più alti del mondo. Sono i Pasdaran che in tempi recenti controllano la produzione e la sperimentazione dei missili balistici Shihab-3 e Shihab 4 (l’uno con 1300 l’altro con 2000 km di gittata) e di armi chimiche e biologiche, all’interno della struttura produttiva “amica” della bonyad (fondazione) Mostazafan. Sempre loro gestiscono il programma nucleare e armano gruppi di guerriglieri all’estero come gli Hezbollah in Libano e Hamas in Palestina e Libano. I Pasdaran sono quindi anche un soggetto economico-militare, esentasse, che costituiscono un fondamentale pilastro del regime.

Economia di guerra bonyad e bazari

Anche sulla spinta dell’economia di guerra degli anni ’80, l’intervento dello Stato nell’economia prosegue e si rafforza: esso mette sotto controllo il commercio estero, nazionalizza le banche, assicurazioni e imprese manifatturiere. Per consolidare l’adesione al regime, esso redistribuisce quote della ricchezza nazionale confiscate allo shah e al suo entourage, in una prima fase verso strati contadini a basso reddito (analogamente a quanto avviene col governo maoista in Cina), poi nei confronti di veterani di guerra (attraverso le bonyad) e strati proletari e piccolo borghesi della città, grazie al prezzo “politico” di alcuni beni di prima necessità – cibo, elettricità, benzina, acqua ma anche cure mediche, e con l’utilizzo dei buoni alimentari.

Al tempo dei Pahlawi 200 famiglie imparentate con lo shah, che sedevano nei consigli di amministrazione del migliaio di aziende di Stato esistenti, secondo il governatore della Banca Centrale Iraniana Moshen Nourbakhsh controllavano il 70-80% di banche e industria. Oggi si valuta che circa il 70% dell’economia sia sotto il controllo statale. Dopo il ’79 le enormi proprietà dello shah e delle grandi famiglie, sono confiscate e cedute alle bonyad. Inizialmente create per assistere le famiglie dei caduti in guerra e dei mutilati, queste fondazioni si incaricano di svariati servizi assistenziali (posti di lavoro, alloggi popolari, assistenza sanitaria, borse di studio, mutui e prestiti a basso tasso di interesse, pellegrinaggi alla Mecca e nelle città sante sciite a spese della comunità). D’altro canto esse funzionano come vere holding economiche che gestiscono varie attività manifatturiere, alberghi e beni immobili, l’industria petrolifera, ma anche banche e attività commerciali. Incamerano interamente i propri profitti, perché i loro beni sono totalmente esentasse. Varie fonti valutano che pesino per il 10 e il 20% del PIL iraniano. Rispondono solo al Velayat-e-Faguih (guida suprema) che ne nomina i responsabili, tutti figure influenti del clero conservatore, veri boiardi di Stato, un gruppo di 500 boss che, grazie alla ricchezza gestita, è in grado di corrompere i politici, intimidire ed eliminare gli avversari scomodi, ma anche distribuire prebende ai khomeinisti, garantirsi la propaganda diffusa e capillare su radio, tv e giornali, pagare il personale delle madrasse, le scuole religiose, praticare quella beneficenza che garantisce il sostegno politico di quasi 2 milioni di diseredati. Le Fondazioni gestiscono anche joint venture all’estero e investimenti in Asia e nei paesi Arabi o mussulmani (ad es. in Bosnia, Armenia, Turkmenistan, Kazakistan, Cina, Pakistan, India, Bangladesh). Struttura dimensioni e funzionamento e soprattutto gli aspetti caritativi sono tutt’altro che trasparenti. Per questo le bonyad sono spesso protagoniste di scandali clamorosi e al centro dello scontro politico.
Poiché il commercio estero è controllato dai funzionari di Stato, da loro i bazari ottengono il monopolio per la vendita delle merci estere sul mercato interno, di cui possono di fatto stabilire i prezzi. Così l’oligarchia degli ayatollah associa il bazar, anche se non reprime la concorrenza del mercato nero parallelo, che passa dai porti privati o di proprietà delle Guardie della Rivoluzione.

Un equilibrio precario

Il meccanismo del controllo sociale non dipende tuttavia dalla volontà soggettiva degli ayatollah, ma soprattutto dall’andamento internazionale dei prezzi del petrolio. La quota della rendita petrolifera sulle entrate dello Stato è oscillata negli anni ’90 da un massimo del 71% nell’anno fiscale 1994-95 a un minimo del 37% nel 1998-99, periodo in cui il petrolio scese a 10-12 dollari il barile. Nel 2005, con prezzi sui 60 dollari il barile nella seconda parte dell’anno, il petrolio dovrebbe aver garantito circa i tre quarti delle accresciute entrate statali.
Il governo attuale dispone quindi di abbondanti risorse per sostenere un forte import di macchinari e semilavorati per lo sviluppo industriale, continuare ad accollarsi i debiti del settore statale e parastatale, che, protetto finora dai dazi e con un’eccedenza di forza lavoro, ha una produttività media molto bassa; il tutto pur senza sacrificare il welfare.

Nei momenti di caduta dei prezzi i leader iraniani (Khomeini, “guida suprema” muore nell’89, gli succede Khamenei, che è stato Presidente fino all’89 e dopo di lui, fra l’89 e il ’97, Rafsanjani; dal ’98 al 2005 Khatami) si sono trovati ad affrontare numerose contraddizioni. Sia Rafsanjani che Khatami hanno tentato l’introduzione di un parziale liberismo attraverso successive privatizzazioni e la costituzione di tre zone di libero scambio, sull’esempio delle zone economiche speciali cinesi, che tuttavia non sono decollate per l’incapacità del governo di dare agli investitori stranieri adeguate garanzie politiche. Per far fronte al drammatico deterioramento degli impianti petroliferi e delle raffinerie, Khatami nel maggio 2002 riesce a far passare una nuova legge che garantisce alle compagnie straniere che investono sui giacimenti contratti di 25 anni invece che di 5 come prima. Questo incoraggia gli investimenti esteri nel settore petrolio: complessivamente dal ’96 al 2004 sono stati di 30 MD di $. Negli anni più recenti si nota una forte ripresa del processo di accumulazione. Tra il 2000 e il 2004 degli investimenti lordi hanno pesato fra il 35 e il 40% del PIL, e il loro incremento è stato quasi doppio rispetto a quello dei consumi privati (fonte Banca Mondiale). Dal 2000 nuove leggi hanno aperto agli stranieri e ai privati altri settori prima protetti e rigorosamente statali (telecomunicazioni, commercializzazione petrolio e gas, elettricità, banche e assicurazioni), ma il nuovo Parlamento del 2004 ha in parte bloccato il processo.
Durante la presidenza Khatami l’ala tecnocratica, rappresentata dal governatore della Banca centrale Moshen Nurbakhsh e dal sindaco di Teheran Karbashi ha spinto per altre privatizzazioni, per la riduzione dei dazi protezionistici (che hanno consentito un certo sviluppo di tessile, industria automobilistica e alimentare), per tassare le fondazioni e imporre l’Iva al Bazar e infine ridurre il welfare. Ma la nuova elite economica di imprenditori privati si è rivelata non abbastanza forte per controbilanciare la fronda statalista e protezionista di bazari e fondazioni, cui Khamenei dà copertura politica e che hanno un forte peso in Parlamento.
Khatami ancor più di Rafsanjani ha rappresentato tutti i limiti dell’ala riformista borghese iraniana. Eletto col 70% dei suffragi e il 60% degli aventi diritto, l’elemento chiave del suo successo è il fatto che il 58% degli elettori nel ’98 aveva meno di trent’anni. E’ questa massa di giovani, che a 15 anni possono votare, con alto tasso di scolarizzazione ma privi di prospettive adeguate di lavoro, desiderosi di ridurre la corruzione e l’oppressiva ingerenza del basso clero nella vita privata, a determinare la sua vittoria. Hanno votato Khatami anche le donne delle città, che hanno ricominciato a entrare nel mercato del lavoro ma col velo nero e salari molto inferiori, che hanno propri giornali e “rileggono il Corano” per ottenere la revisione delle leggi sull'eredità e sul divorzio. Hanno votato Khatami gli intellettuali, che aspirano alla libertà di stampa, ma anche gli operai delle città e le minoranze curde e turcofone. Osannato anche dalla stampa occidentale, che spera in un’apertura dell’appetitoso mercato iraniano, Khatami si presenta come il nuovo che avanza, ma non è un nuovo Deng, ben presto sconfessa la sua base elettorale (lasciando soli gli studenti che manifestano nel ’99 e nel 2003); resta inerte davanti agli assassinii politici e agli arresti arbitrari dei suoi, fino ad autoemarginarsi dallo scontro politico.

L’involuzione nella struttura produttiva e sociale

Anche solo una breve disamina dell’andamento del PIL ci mostra come i primi dieci anni dopo la “rivoluzione khomeinista” abbiamo inciso negativamente: se nel ’73-77 il PIL era aumentato del 7,9% all’anno (e gli investimenti del 22%), nel ’79-80 il PIL diminuisce del 10,5% all’anno, negli 8 anni di guerra aumenti annui solo dell’1,4%, poi decolli nel ’89-92 (+7,9%) e aumenti pur fra molte oscillazioni fra ’93 e 2000 (+3,45% all’anno). Negli ultimi 5 anni la crescita è stata sostenuta, vicina al 6% annuo. Se si esamina poi la quota del valore aggiunto per settori, nel 2004 era 11% in agricoltura, 41% nell’industria, 48,1% nei servizi: un quadro da paese industrializzato, anche se bisogna tener conto che circa metà della produzione industriale è data da petrolio e gas.
I dati dei censimenti mostrano che in 20 anni l’occupazione complessiva è aumentata del 66% e quella industriale del 55%, risultato quest’ultimo di un calo del 14% nel primo decennio, e di un aumento del 79% nel secondo: la guerra ha sottratto operai industriali alla produzione, poi è seguita una forte espansione industriale, che è avvenuta prevalentemente nella forma del capitalismo di Stato: quasi i tre quarti dell’aumento dei salariati dell’industria sono nelle fabbriche statali (una parte delle quali erano in precedenza private). Si può ritenere che il grosso dell’industria moderna iraniana sia oggi di proprietà statale, mentre quella privata è perlopiù composta di una miriade di botteghe artigianali, aziende familiari (incluso il lavoro a domicilio tra le famiglie contadine: nel 1996 1,8 milioni di persone risultavano occupate nella produzione di tappeti), e imprese piccole e medie. Ancora più diffusa la presenza della piccola borghesia e dei lavoratori indipendenti nei servizi.
Nel decennio della rivoluzione e della guerra vi è stata espansione della piccola borghesia e deproletarizzazione (i lavoratori dipendenti sono scesi dal 54 al 49%); nel secondo decennio è ripreso un moderato processo di proletarizzazione, tenuto però conto che esiste una enorme quota di lavoro sommerso.
Nel complesso vi è una forte espansione dell’apparato dello Stato: gli statali quasi triplicano di numero, salendo a 4,3 milioni, e dal 19 al 29% degli occupati. Questa formula della “repubblica islamica” si basa su una ampia burocrazia.
A livello sociale il regime può vantare qualche successo: l’analfabetismo è sceso dal 70% del 1971, vergognosa eredità dello shah, al pur elevatissimo 46,2% attuale, l’analfabetismo giovanile tra l’80 e il ’96 è sceso dal 16 al 5% per i maschi e dal 35 al 10% per le femmine (che sono il 63% degli iscritti all’Università); la mortalità infantile passa dal 10,4 al 2,5%; la speranza di vita è aumentata da 55 a 68 anni; tutti i villaggi sono stati dotati di acqua potabile e di luce elettrica, di una scuola elementare e di un presidio sanitario (meno garantiti questi servizi nelle grandi città).
Tuttavia nel 1980 il reddito pro-capite era caduto al 64% di quello del ’76, e diminuì ulteriormente al 54% nel periodo della guerra Iran-Irak, a causa anche dell’accelerato aumento demografico, risalendo poi lentamente, tanto che solo nel 2005 si recupera il livello di prima della rivoluzione (ma si deve tener conto che è pur sempre la media del pollo).
Se fra il ’79 e l’89 il governo aveva esortato alla procreazione per dare “soldati alla patria” facendo salire il tasso di crescita della popolazione al 3,2% annuo (7 figli in media per donna); dal ’93 è riuscito a porre sotto controllo l’aumento demografico, tagliando i sussidi di maternità dopo il terzo figlio, scoraggiando le gravidanze prima dei 18 anni e dopo i 35, distribuendo contraccettivi, preservativi, praticando sterilizzazioni (il tutto gratuitamente). La media di figli per donna è caduta a 2. Gli effetti a lunga scadenza saranno forse positivi ma nei prossimi 4 anni entreranno nel mercato del lavoro 5 milioni di giovani che non troveranno adeguata collocazione.
Molti emigrano e per cercare lavoro e per sfuggire alla repressione. Si valuta che negli anni ’80 e ’90 lascino l’Iran dai 100 ai 225 mila giovani ogni anno (ma manca una seria analisi statistica, non essendo interesse del regime farla). Si valuta comunque nel ’96 una presenza di 335 mila iraniani negli Usa, 1,5 milioni in Turchia 37 mila in Eu (distribuiti in Francia, Germania e Olanda). Spesso i dissidenti vengono raggiunti anche all’estero e assassinati dal regime.
A più riprese la lotta di classe, compressa durante la guerra Irak-Iran esplode: dalle sommosse operaie del ’91-92 (centinaia di esecuzioni e migliaia di arresti) alla rivolta dell’acqua a Teheran nel ’95 (i dimostranti vennero mitragliati dagli elicotteri dalla polizia: 100 morti). Nel 2000 nuove manifestazioni per chiedere lavoro, case, cibo: centinaia di migliaia nel porto di Bandar Abbas, ma anche a Teheran (12 milioni di abitanti), Tabriz, Mashhad, Isfahan, Shiraz, Yazd, Khorram Abad, Zanjan, Urimiyeh, Shahroud. Molti gli scioperi e le manifestazioni di operai delle fabbriche privatizzate che vengono licenziati. Nel 2004 la rivolta di Ahwaz, capoluogo del Khuzistan arabo e sunnita, la provincia con i maggiori giacimenti di petrolio, contro la disoccupazione e la “rapina” dei proventi petroliferi esercitata da Teheran, termina con più di 50 morti, centinaia di feriti e 1000 arrestati e indica che anche il controllo sulle diverse etnie è precario.
Le proteste operaie quindi, benché ferocemente represse, continuano.

Ahmadinejad, un pasdaran al potere

Alì Akbar Rafsanjani

La guerra Iran-Irak infatti ha consentito carriere prodigiose e arricchimenti rapidi e altrettanto prodigiosi. Uno di questi “pescecani di guerra” è Alì Akbar Rafsanjani, la cui famiglia proviene dal bazar. Rafsanjani ha flirtato coi movimenti di sinistra prima del ’79 (Tudeh, Mujiaidinn del Popolo), salvo poi diventarne il maggiore carnefice. E stato speaker del Parlamento fra l’80 e l’89 e comandante in capo delle Forze Armate nell’ultima fase della guerra. Khomeini muore un anno dopo e Rafsanjani aiuta il presidente in carica Khamenei a neutralizzare il delfino designato Montazeri e a diventare Velayat-e- Faguih (guida suprema). Rafsanjani diventa a sua volta presidente col 95% dei voti dall’89 al ’97 e sarà il kingmaker del presidente successivo Khatami, anch’esso appartenente all’elite clericale, i seyed (discendenti del profeta), amico intimo del figlio di Khomeini di cui ha sposato una cugina. Rafsanjani detiene un grande potere non solo economico (la famiglia ha importanti investimenti nel petrolio, in agricoltura, pistacchio e zafferano, e nel settore auto), ma anche politico perché dirige il Consiglio per la determinazione delle scelte (Expediency Discernment Council) che è incaricato di dirimere le controversie fra Parlamento (Majlis) e Consiglio dei Guardiani. E’ anche il numero due dell'Assemblea degli esperti incaricata di nominare il leader supremo.

Così è avvenuto alle presidenziali del 2005, in cui la bassa affluenza alle urne (47% degli aventi diritto, 12% a Teheran città, 33% nelle altre aree urbane) dimostra tutta la delusione lasciata in eredità da Khatami e la scarsa presa della nuova presidenza nei centri urbani. Il nuovo presidente Ahmadinejad ha vinto con il voto del 28% degli aventi diritto, grazie anche al fatto che la maggioranza dei candidati riformisti era stata epurata dalle liste. Ha prevalso nei quartieri operai, ad es. Bagherabad, quartiere di Teheran, ma anche tra i contadini poveri che si riconoscono nella sua ideologia della rettitudine e della “beneficenza misericordiosa”. Ha promesso di potenziare i centri di distribuzione sussidiata, dove acquista cibo quel 27% degli iraniani che ufficialmente vive sotto la soglia linea di povertà (280$ al mese per una famiglia di 5 persone). Mentre Khatami era stato eletto per parole d’ordine come libertà e democrazia, la sua campagna populista si è basata sulla promessa di ridurre le differenze sociali, abbassare i prezzi, aumentare i salari e i sussidi statali per i poveri. Gli attuali elevati prezzi del petrolio gli permettono di accrescere le elargizioni. Fin dalle prime battute ha ottenuto la fiducia del Parlamento, che lo vede come un leader contrario alle privatizzazioni e favorevole al protezionismo. Ha subito invocato un ruolo preminente all’esercito anche nelle decisioni politiche ed è logico che l’esercito (ostile a Khatami) ne sia entusiasta e appoggi gli attacchi a Israele, le dichiarazioni provocatorie nei confronti di Washington. Non ha importanza quanto soggettivamente sia maldestro o fanatico Ahmadinejad: adottando una politica estera più nazionalista e antiamericana può essere vincente all’interno per coagulare le varie frazioni borghesi in nome dello sviluppo del nucleare “patriottico”, mentre all’esterno punta a fare dell’Iran lo Stato guida della riscossa islamica.
Ahmadinejad è nato a Marmak, uno dei quartieri poveri di Teheran, ha servito come ufficiale nei Basij e come ingegnere per gli otto anni nella guerra contro l’Irak. Appartiene alla schiera di pasdaran “che ha conosciuto le barricate, la guerra e le prigioni dello shah, ha scalato le vette dell’establishment sposando figlie e nipoti di ayatollah (nel suo caso la figlia dell’ayatollah Alì Jannati) e ha conquistato un posto al sole” (Foglio, 1 ag. 05). Nel ’90 è diventato governatore di Ardebil, poi a sorpresa nel 2003 sindaco di Teheran.
Che la sua elezione voglia dire un ritorno al passato è dubbio, perché è il risultato di una mobilitazione del complesso militare-industriale che già alle politiche del 2004 ha eletto 40 propri esponenti sui 290 membri del Parlamento, e che per lui ha messo in campo in campagna elettorale Pasdaran e Basij (che da soli tesserano quasi 8 milioni di giovani). L’esercito, che solo con una forte sviluppo tecnico può pensare di tenere il passo nell’industria bellica, ha interesse a modernizzare l’economia.
Della stessa linea si fanno interpreti i tecnocrati organizzati nella potente “Associazione degli specialisti” che raggruppa molti quadri e manager di provenienza pasdaran, conservatori sul piano politico e sociale, ma “modernisti” negli affari e pronti ad aprire ai capitali stranieri, ma alle proprie condizioni, e soprattutto portati a concepirsi non come imprenditori privati, ma come funzionari del capitalismo di Stato. Ahmadinejad ha annunciato una revisione dei contratti di esportazione con le compagnie petrolifere nel senso di “far piazza pulita delle mafie” (l’allusione alla famiglia Rafsanjani è qui chiarissima) e favorire società iraniane.
Inevitabilmente si sta organizzando un’opposizione alla sua linea: solo l’ultimo di quattro candidati da lui indicati al Ministero del petrolio è stato eletto da Parlamento e, cosa anche più significativa, in un incidente aereo sospetto sono morti il generale Ahmad Khazemi, fedelissimo di Ahmadinejad, e l’intero stato maggiore delle forze terrestri pasdaran.
Lo stesso Khamenei, dopo averne favorito l’elezione, ne ha ridimensionato le prerogative attribuendo all’Expediency Discernment Council diretto dall’ex concorrente Rafsanjani, un potere di supervisione sulle scelte del presidente. Tutto questo prelude a una lotta per il potere di cui evidentemente non è ancora stata scritta la parola fine. Delle implicazioni internazionali di questo scenario si occuperà un altro articolo.






A.M.

Pubblicato su: 2006-04-20 (2343 letture)

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