L’Italia rispetto agli altri paesi a capitalismo maturo presenta una
specificità: una quota di lavoro autonomo pari a quasi un terzo della
popolazione attiva. Mentre negli altri paesi industrializzati per ogni
lavoratore indipendente ce ne sono 9 dipendenti, in Italia ce ne sono
2,4.
Coltivatori diretti, artigiani, commercianti, piccoli imprenditori e
liberi professionisti non solo riducono la competitività della
borghesia italiana, ma frenano il processo di concentrazione del
capitale che porterebbe anche il proletariato a concentrarsi e ad avere
più capacità di organizzazione e più forza.
Al di là dei livelli di reddito, talvolta tutt’altro che elevati, la
piccola borghesia italiana ha costantemente esercitato una forte
pressione elettorale sui partiti parlamentari, ottenendo spesso
l’impunità riguardo all’evasione fiscale e contributiva. Fin dagli anni
’50, complice la politica interclassista delle burocrazie sindacali,
hanno goduto di pensioni anche dieci volte superiori ai versamenti,
grazie ai generosi trasferimenti dalle casse previdenziali del lavoro
dipendente, cioè a spese dei contributi dei salariati, che in Italia
sono fra i più alti al mondo.
Definire, da un lato, la consistenza, dall’altro, gli interessi di
questa piccola borghesia, consente di valutare il
livello di concentrazione capitalistico in Italia, dare alla classe gli
strumenti per evitare di essere trascinata nelle politiche di“alleanza
coi ceti produttivi” care alla sinistra parlamentare, ma anche di
essere usata dalla grande borghesia italiana nella sua battaglia per
ridimensionare gli strati piccolo borghesi.
All’inizio degli anni ‘70 Lorenzo Parodi
e Arrigo Cervetto ipotizzarono,
sull’onda delle lotte spontanee della
classe operaia che avevano caratterizzato
il decennio, che la grande borghesia
italiana avrebbe potuto contare
sulla formazione di un forte sindacato
tradeunionista, meno condizionato dai
partiti interclassisti, per ridimensionare
il peso della piccola borghesia,
risolvendo la “crisi di squilibrio” tra
economia e politica che caratterizzava
la metropoli italiana. Lo squilibrio sociale,
alla base dello squilibrio politico
italiano, nasceva da un eccessivo peso
degli strati piccolo borghesi, che da un
lato influenzavano la sovrastruttura
statale a proprio vantaggio, dall’altro
aumentavano a dismisura la quota di
parassitismo e infine riducevano
l’efficienza e la produttività complessiva
del capitalismo italiano, impegnato
nello scontro interimperialistico.
In un articolo del febbraio ’87 intitolato
“I tempi della socialdemocratizzazione”
lo stesso Cervetto, operando
una verifica scientifica, riconosceva
che questa ipotesi non si era
realizzata.
L’ondata di lotte spontanee era rifluita
troppo presto. Il sindacato tradizionale,
condizionato dalla cinghia di
trasmissione con i partiti interclassisti,
aveva ripreso di fatto il controllo
delle lotte spontanee, senza trasformarsi
in modo decisamente tradeunionista;
la grande borghesia nel corso
degli anni ’70 aveva rinunciato a
ridimensionare la piccola borghesia,
con cui aveva realizzato un compromesso
a spese della classe operaia.
Il risultato era il permanere della
crisi di squilibrio, un mancato adeguamento
dello Stato alle esigenze del
grande capitale, una mancata centralizzazione
del capitale e una riduzione
della competitività dell’imperialismo
italiano.
L’Italia paradiso del lavoro autonomo
L’analisi dei dati relativi al lavoro autonomo
in Italia conferma il permanere
di questa situazione.
Fra i paesi imperialisti gli Usa e la
Gran Bretagna hanno terminato da
decenni il processo di disgregazione
contadina e di proletarizzazione,
perciò la quota di lavoro dipendente
sul totale degli attivi (91%) nel ‘76 era
nettamente superiore a quella degli
altri paesi (vedi Tav.1). La Gran
Bretagna negli anni del liberismo
thatcheriano ha subito un processo in
controtendenza, mentre negli Usa il
lavoro dipendente ha comunque guadagnato
terreno, confermando come in
questo paese si manifestino in anticipo
e in forma più netta le linee di
tendenza del capitalismo moderno.
La Francia e la Germania, che nel ’76
partivano da livelli di proletarizzazione
più bassi, nella seconda metà degli anni
’90, raggiungono e sorpassano la Gran
Bretagna e riducono notevolmente le
distanze con gli Usa.
Giappone Spagna e Italia presentavano
nel 1970 una quota di lavoro
autonomo pari a un 30% del totale, e
per la persistenza della piccola
borghesia contadina (il coltivatore
diretto) e per l’espansione degli stratiurbani (commercianti, artigiani ecc).
Ma mentre in vent’anni in Giappone
questa quota si riduce drasticamente
(al 17,7%) e in Spagna in modo consistente
( dal 31,5% al 25%,), in Italia il
lavoro indipendente è rimasto fermo al
29%. Anche se escludiamo il settore
agricolo nel 2001 l’Italia si conferma
come il paradiso della piccola borghesia,
il paese dove anzi questa categoria
sociale è aumentata. (cfr tab.2).
Secondo l’Istat sono 5,9 milioni di
persone, di cui 650 mila
nell’agricoltura, un milione e mezzo
nell’industria ( di cui 900 mila artigiani)
e quasi quattro milioni nei servizi.
Fazio vestale della produttività
Una conferma viene dal governatore
della Banca d’Italia Antonio Fazio, che
nella sua Relazione del 1999, punta il
dito sull’inadeguatezza dei governi,
che avrebbero impedito con lacci e
lacciuoli lo sviluppo della grande distribuzione,
consentendo di sopravvivere a
forme produttive più arretrate, anche
attraverso la tolleranza verso
l’evasione fiscale: “L’Italia, storicamente
caratterizzata da una quota
elevata di lavoratori indipendenti, ha
sperimentato un ulteriore incremento,
salendo dal 22,7% del 1978 al 25,8%
del 1990…. Fra i paesi europei solo la
Grecia registra un’incidenza maggiore….
La diversità italiana non discende
dalla specializzazione settoriale, ma
sembra piuttosto risentire dell’esteso
intervento regolatore dello Stato.
Quest’ultimo ha da un lato ritardato in
alcuni comparti come il commercio, la
modernizzazione della struttura
produttiva, dall’altro ha favorito il
diffondersi di attività indipendenti in
cui più facile risulta l’elusione dei
numerosi vincoli normativi e del
prelievo fiscale e contributivo”
Fazio, rappresentante della grande
finanza, ragiona da “capitalista
collettivo”, si pone il problema
dell’interesse complessivo della borghesia,
cioè della sua parte dominante,
la grande borghesia.
La lobby dei liberi professionisti
I governi, assai più sensibili ai probl emi
elettorali, pur rappresentando il
comitato d’affari della borghesia ,sono assai meno lineari.
Assai significativa è la
vicenda relativa agli ordini
professionali. Con lo sviluppo
tecnologico in anni recenti
sono emerse nuove professionalità
(per es. gli
informatici, gli esperti di
marketing, i pubblicitari,
consulenti aziendali ecc.),
che hanno fatto azione di
lobbying per essere riconosciuti
in propri specifici
Albi o Ordini, privilegio limitato
invece ai liberi professionisti
tradizionali da una
legge fascista del ’39 che
vieta l’esercizio di queste professioni
nella forma di società per azioni.
Contemporaneamente le normative
europee chiedevano l’apertura delle
professioni alla libera concorrenza. Ma
né il governo Prodi (DL del luglio
’98) né Fassino, nel 2000, come ministro
della Giustizia, sono riusciti a
liberalizzare l’accesso agli ordini professionali,
eliminando la predeterminazione
dei posti (ad es. per notai e
farmacisti). Neppure è passata la costituzione
di società di libera professione,
cui possano aderire anche soci
che contribuiscano solo a livello di capitale,
trasformandole in società di
servizio. AN (e non solo per ragioni di
coerenza storica) e Forza Italia si
sono eletti paladini degli interessi di
queste corporazioni professionali, alla
faccia del “libero mercato”, in nome
della “creatività” della libera professione
e della difesa del “cittadino
sprovveduto” che solo negli ordini professionali
troverebbe protezione.
L’interesse suscitato dai liberi professionisti
si spiega col loro numero,
1 milione e seicentomila in Italia (con
al proprio servizio circa 1 milione di
praticanti, aspiranti professionisti, e
900 mila dipendenti) contro il mezzo
milione della Francia, ma anche con la
loro massiccia presenza nelle aule parlamentari,
assolutamente sproporzionata
al loro numero e peso economico.
Il governo Berlusconi dopo due anni di
attività della Commissione Vietti
(Udc), nonostante una sentenza della
Corte di giustizia UE del febbraio
2002 e nonostante i richiami di Monti,non è andato per ora oltre. Sembra
aver ceduto alle pressioni delle
“vecchie professioni”, organizzate nel
CUP, comitato unitario dei professionisti,
che difendono la propria situazione
monopolistica e che dal «Sole 24
Ore» ringraziano le opposizioni per
“l’atteggiamento costruttivo e responsabile”.
Conclusione: con qualsiasi
governo questi strati difendono egr egiamente
i loro interessi. In questo
caso a danno della “logica di mercato”,
delle professioni emergenti spesso
nerbo dei servizi alle imprese, in controtendenza
rispetto ai modelli prevalenti
negli Usa o in Gran Bretagna dove
esistono studi professionali con
centinaia di addetti, e a danno della
competitività complessiva del sistema.
La campagna d’autunno contro il piccolo
commercio
L’Italia è una metropoli imperialistica
in cui, drasticamente ridimensionato il
grande capitale statale negli anni ‘90,
anche il peso economico dei maggiori
gruppi imperialistici è stato ridimensionato.
Negli stessi anni la compressione
salariale ha consentito la sopravvivenza
e anzi l’aumento di una elevata
quota di piccole imprese, redditizie
per i proprietari ma inefficienti, che
si appropria comunque di consistenti
quote di plusvalore. Nel contempo è
aumentata la presenza dei gruppi medio
grandi.
La stessa elezione di D’Amato a capo
della Confindustria ha corrisposto a
questo cambiamento. D’Amato comecampione della terza Italia (del nord est, della dorsale adriatica e del Meridione)
ha sconfitto i vecchi ras della
grande industria e del salotto buono di
Mediobanca, primi fra tutti gli Agnelli.
Questa Terza Italia che si deve
confrontare sul mercato internazionale
con la concorrenza agguerrita degli
altri imperialismi si trova oggi a dover
fare i conti con gli stessi problemi
degli anni ’70, cioè con una crisi di
squilibrio non risolta. Ha quindi
l’esigenza di aumentare la concentrazione
del capitale, sottraendo una
serie di attività alla piccola borghesia,
sia per recuperare quote di plusvalore
che per affrontare meglio la concorrenza
internazionale.
D’Amato ha puntato su questo governo
perché insoddisfatto dei risultati di
quello precedente. Ma questo come
altri governi italiani è in larga misura
espressione elettorale della piccola
borghesia; le sue divisioni riflettono le
contraddizioni della borghesia stessa
rispetto alle quali le frazioni dominanti
faticano a trovare una sintesi.
Confindustria ha mostrato qualche insofferenza
verso il governo Berlusconi,
per la lentezza e le contraddizioni
con cui procede alle “riforme” e
orchestra, con l’ausilio di stampa e
televisione, una campagna d’autunno di
attacco al piccolo commercio che fa
aumentare i prezzi. E i leader sindacali
sempre succubi di qualche
frazione borghese si accodano appoggiando
gli “scioperi” dei consumatori.
E’ una campagna per forzare il
governo nazionale ma anche alcune Regioni
a eliminare la legislazione che
ostacola la diffusione della grande
distribuzione.
In Italia le piccole imprese nel
commercio, protette da leggi e
leggine, sono costantemente aumentate,
salvo una stasi fra gli anni ’80 e gli
anni ‘90. Se nel 1951 le imprese
commerciali erano 867 mila e nel 1971
un milione e 180 mila ( con 2,8 milioni
di addetti), nel 2000 erano salite a 1
milione e 342 mila (con 3,2 milioni di
addetti, il 70,5% dei quali lavora in
imprese con meno di 10 dipendenti).
Il proliferare dei negozi in concomitanza
con un sostenuto aumento dei
consumi, è un fenomeno comune a tutti
i paesi a capitalismo maturo, ma è
specifica dell’Italia la modesta concentrazione.
L’OCSE sottolinea come
in Italia ci siano 130 negozi per ogni 10
mila abitanti, un dato inferiore solo a
quelli di Portogallo (150) e Spagna
(133), ma doppio rispetto ai 64 negozi
della Francia, e quadruplo rispetto ai
35 della Germania e ai 36 della Gran
Bretagna («Sole 24Ore», 26-9-03).
La quota di lavoro dipendente, tuttavia,
anche in Italia aumenta, sia pure
lentamente. Se nel 1984 i lavoratori
dipendenti del commercio erano solo il
30% degli attivi, nel 2002 erano il
53,2% (Relazione annuale Bankitalia
relativa al 2002). Ma negli Usa i dipendenti
del commercio sono il 94%
degli attivi, cioè in un rapporto di 16 a
1 rispetto agli indipendenti, mentre in
Italia sono in un rapporto di 1 a 1.
Non c’è dubbio che il proletariato ha
tutto da guadagnare da un processo di
concentrazione che crea lavoro dipendente.
La forte presenza di piccolissime
imprese è una ragione di debolezza
per il proletariato, sia sul piano della
minore possibilità di organizzazione
sindacale che della diffusione di
ideologie borghesi.
In passato, complici le centrali
sindacali e i partiti parlamentari, il
proletariato è stato asservito agli
interessi della piccola borghesia nella
logica delle “alleanze”. Oggi i vertici
sindacali, con una parola d’ordine come
“la difesa dei consumatori” propongono
uno slogan altrettanto interclassista,
questa volta al servizio del medio e
grande capitale.
Il potere d’acquisto dei lavoratori si
difende col salario e non in un generico
fronte dei consumatori che accomunerebbe
il libero professionista e il
metalmeccanico, la commessa e il
gioielliere.
La classe lavoratrice ha già dato
Nel frattempo l’autolimitazione
salariale accettata da un sindacato
subalterno ha di fatto lasciato alla
piccola borghesia margini per sopravvivere
in una situazione di bassa
concentrazione.
Da più di quarant’anni le pensioni dei
coltivatori diretti, dei commercianti e
degli artigiani sono pagate in buona
parte dai lavoratori dipendenti, che
non possono godere delle minori contribuzioni
e dell’impunità contributiva
garantita invece a queste categorie
della piccola borghesia.
Oggi per far fronte al “dissesto
previdenziale” nessun partito parlamentare
osa alzare la voce contro i
minori contributi di questi ceti. E
come unico capro espiatorio viene
scelto il lavoratore co.co.co, le cui
aliquote vengono aumentate. Agli inizi
del 2003 circa 2 milioni e 152 mila
lavoratori vengono contabilizzati
ufficialmente sotto questa sigla, che
spesso copre forme mascherate e sottopagate
di lavoro dipendente.
Se dissesto previdenziale esiste, il
lavoro dipendente ha già dato.
A.M.