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N°0 Pagine Marxiste - novembre 2003
Autonomia di classe contro le pressioni di grande e piccola borghesia

L’Italia rispetto agli altri paesi a capitalismo maturo presenta una
specificità: una quota di lavoro autonomo pari a quasi un terzo della
popolazione attiva. Mentre negli altri paesi industrializzati per ogni
lavoratore indipendente ce ne sono 9 dipendenti, in Italia ce ne sono
2,4.
Coltivatori diretti, artigiani, commercianti, piccoli imprenditori e
liberi professionisti non solo riducono la competitività della
borghesia italiana, ma frenano il processo di concentrazione del
capitale che porterebbe anche il proletariato a concentrarsi e ad avere
più capacità di organizzazione e più forza.
Al di là dei livelli di reddito, talvolta tutt’altro che elevati, la
piccola borghesia italiana ha costantemente esercitato una forte
pressione elettorale sui partiti parlamentari, ottenendo spesso
l’impunità riguardo all’evasione fiscale e contributiva. Fin dagli anni
’50, complice la politica interclassista delle burocrazie sindacali,
hanno goduto di pensioni anche dieci volte superiori ai versamenti,
grazie ai generosi trasferimenti dalle casse previdenziali del lavoro
dipendente, cioè a spese dei contributi dei salariati, che in Italia
sono fra i più alti al mondo.
Definire, da un lato, la consistenza, dall’altro, gli interessi di
questa piccola borghesia, consente di valutare il
livello di concentrazione capitalistico in Italia, dare alla classe gli
strumenti per evitare di essere trascinata nelle politiche di“alleanza
coi ceti produttivi” care alla sinistra parlamentare, ma anche di
essere usata dalla grande borghesia italiana nella sua battaglia per
ridimensionare gli strati piccolo borghesi.


All’inizio degli anni ‘70 Lorenzo Parodi e Arrigo Cervetto ipotizzarono, sull’onda delle lotte spontanee della classe operaia che avevano caratterizzato il decennio, che la grande borghesia italiana avrebbe potuto contare sulla formazione di un forte sindacato tradeunionista, meno condizionato dai partiti interclassisti, per ridimensionare il peso della piccola borghesia, risolvendo la “crisi di squilibrio” tra economia e politica che caratterizzava la metropoli italiana. Lo squilibrio sociale, alla base dello squilibrio politico italiano, nasceva da un eccessivo peso degli strati piccolo borghesi, che da un lato influenzavano la sovrastruttura statale a proprio vantaggio, dall’altro aumentavano a dismisura la quota di parassitismo e infine riducevano l’efficienza e la produttività complessiva del capitalismo italiano, impegnato nello scontro interimperialistico.
In un articolo del febbraio ’87 intitolato “I tempi della socialdemocratizzazione” lo stesso Cervetto, operando una verifica scientifica, riconosceva che questa ipotesi non si era realizzata.
L’ondata di lotte spontanee era rifluita troppo presto. Il sindacato tradizionale, condizionato dalla cinghia di trasmissione con i partiti interclassisti, aveva ripreso di fatto il controllo delle lotte spontanee, senza trasformarsi in modo decisamente tradeunionista; la grande borghesia nel corso degli anni ’70 aveva rinunciato a ridimensionare la piccola borghesia, con cui aveva realizzato un compromesso a spese della classe operaia.
Il risultato era il permanere della crisi di squilibrio, un mancato adeguamento dello Stato alle esigenze del grande capitale, una mancata centralizzazione del capitale e una riduzione della competitività dell’imperialismo italiano.

L’Italia paradiso del lavoro autonomo

L’analisi dei dati relativi al lavoro autonomo in Italia conferma il permanere di questa situazione.
Fra i paesi imperialisti gli Usa e la Gran Bretagna hanno terminato da decenni il processo di disgregazione contadina e di proletarizzazione, perciò la quota di lavoro dipendente sul totale degli attivi (91%) nel ‘76 era nettamente superiore a quella degli altri paesi (vedi Tav.1). La Gran Bretagna negli anni del liberismo thatcheriano ha subito un processo in controtendenza, mentre negli Usa il lavoro dipendente ha comunque guadagnato terreno, confermando come in questo paese si manifestino in anticipo e in forma più netta le linee di tendenza del capitalismo moderno. La Francia e la Germania, che nel ’76 partivano da livelli di proletarizzazione più bassi, nella seconda metà degli anni ’90, raggiungono e sorpassano la Gran Bretagna e riducono notevolmente le distanze con gli Usa.
Giappone Spagna e Italia presentavano nel 1970 una quota di lavoro autonomo pari a un 30% del totale, e per la persistenza della piccola borghesia contadina (il coltivatore diretto) e per l’espansione degli stratiurbani (commercianti, artigiani ecc).
Ma mentre in vent’anni in Giappone questa quota si riduce drasticamente (al 17,7%) e in Spagna in modo consistente ( dal 31,5% al 25%,), in Italia il lavoro indipendente è rimasto fermo al 29%. Anche se escludiamo il settore agricolo nel 2001 l’Italia si conferma come il paradiso della piccola borghesia, il paese dove anzi questa categoria sociale è aumentata. (cfr tab.2). Secondo l’Istat sono 5,9 milioni di persone, di cui 650 mila nell’agricoltura, un milione e mezzo nell’industria ( di cui 900 mila artigiani) e quasi quattro milioni nei servizi.

Fazio vestale della produttività

Una conferma viene dal governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, che nella sua Relazione del 1999, punta il dito sull’inadeguatezza dei governi, che avrebbero impedito con lacci e lacciuoli lo sviluppo della grande distribuzione, consentendo di sopravvivere a forme produttive più arretrate, anche attraverso la tolleranza verso l’evasione fiscale: “L’Italia, storicamente caratterizzata da una quota elevata di lavoratori indipendenti, ha sperimentato un ulteriore incremento, salendo dal 22,7% del 1978 al 25,8% del 1990…. Fra i paesi europei solo la Grecia registra un’incidenza maggiore….
La diversità italiana non discende dalla specializzazione settoriale, ma sembra piuttosto risentire dell’esteso intervento regolatore dello Stato. Quest’ultimo ha da un lato ritardato in alcuni comparti come il commercio, la modernizzazione della struttura produttiva, dall’altro ha favorito il diffondersi di attività indipendenti in cui più facile risulta l’elusione dei numerosi vincoli normativi e del prelievo fiscale e contributivo” Fazio, rappresentante della grande finanza, ragiona da “capitalista collettivo”, si pone il problema dell’interesse complessivo della borghesia, cioè della sua parte dominante, la grande borghesia.

La lobby dei liberi professionisti

I governi, assai più sensibili ai probl emi elettorali, pur rappresentando il comitato d’affari della borghesia ,sono assai meno lineari. Assai significativa è la vicenda relativa agli ordini professionali. Con lo sviluppo tecnologico in anni recenti sono emerse nuove professionalità (per es. gli informatici, gli esperti di marketing, i pubblicitari, consulenti aziendali ecc.), che hanno fatto azione di lobbying per essere riconosciuti in propri specifici Albi o Ordini, privilegio limitato invece ai liberi professionisti tradizionali da una legge fascista del ’39 che vieta l’esercizio di queste professioni nella forma di società per azioni. Contemporaneamente le normative europee chiedevano l’apertura delle professioni alla libera concorrenza. Ma né il governo Prodi (DL del luglio ’98) né Fassino, nel 2000, come ministro della Giustizia, sono riusciti a liberalizzare l’accesso agli ordini professionali, eliminando la predeterminazione dei posti (ad es. per notai e farmacisti). Neppure è passata la costituzione di società di libera professione, cui possano aderire anche soci che contribuiscano solo a livello di capitale, trasformandole in società di servizio. AN (e non solo per ragioni di coerenza storica) e Forza Italia si sono eletti paladini degli interessi di queste corporazioni professionali, alla faccia del “libero mercato”, in nome della “creatività” della libera professione e della difesa del “cittadino sprovveduto” che solo negli ordini professionali troverebbe protezione.
L’interesse suscitato dai liberi professionisti si spiega col loro numero, 1 milione e seicentomila in Italia (con al proprio servizio circa 1 milione di praticanti, aspiranti professionisti, e 900 mila dipendenti) contro il mezzo milione della Francia, ma anche con la loro massiccia presenza nelle aule parlamentari, assolutamente sproporzionata al loro numero e peso economico.
Il governo Berlusconi dopo due anni di attività della Commissione Vietti (Udc), nonostante una sentenza della Corte di giustizia UE del febbraio 2002 e nonostante i richiami di Monti,non è andato per ora oltre. Sembra aver ceduto alle pressioni delle “vecchie professioni”, organizzate nel CUP, comitato unitario dei professionisti, che difendono la propria situazione monopolistica e che dal «Sole 24 Ore» ringraziano le opposizioni per “l’atteggiamento costruttivo e responsabile”.
Conclusione: con qualsiasi governo questi strati difendono egr egiamente i loro interessi. In questo caso a danno della “logica di mercato”, delle professioni emergenti spesso nerbo dei servizi alle imprese, in controtendenza rispetto ai modelli prevalenti negli Usa o in Gran Bretagna dove esistono studi professionali con centinaia di addetti, e a danno della competitività complessiva del sistema.

La campagna d’autunno contro il piccolo commercio

L’Italia è una metropoli imperialistica in cui, drasticamente ridimensionato il grande capitale statale negli anni ‘90, anche il peso economico dei maggiori gruppi imperialistici è stato ridimensionato. Negli stessi anni la compressione salariale ha consentito la sopravvivenza e anzi l’aumento di una elevata quota di piccole imprese, redditizie per i proprietari ma inefficienti, che si appropria comunque di consistenti quote di plusvalore. Nel contempo è aumentata la presenza dei gruppi medio grandi.
La stessa elezione di D’Amato a capo della Confindustria ha corrisposto a questo cambiamento. D’Amato comecampione della terza Italia (del nord est, della dorsale adriatica e del Meridione) ha sconfitto i vecchi ras della grande industria e del salotto buono di Mediobanca, primi fra tutti gli Agnelli.
Questa Terza Italia che si deve confrontare sul mercato internazionale con la concorrenza agguerrita degli altri imperialismi si trova oggi a dover fare i conti con gli stessi problemi degli anni ’70, cioè con una crisi di squilibrio non risolta. Ha quindi l’esigenza di aumentare la concentrazione del capitale, sottraendo una serie di attività alla piccola borghesia, sia per recuperare quote di plusvalore che per affrontare meglio la concorrenza internazionale.
D’Amato ha puntato su questo governo perché insoddisfatto dei risultati di quello precedente. Ma questo come altri governi italiani è in larga misura espressione elettorale della piccola borghesia; le sue divisioni riflettono le contraddizioni della borghesia stessa rispetto alle quali le frazioni dominanti faticano a trovare una sintesi. Confindustria ha mostrato qualche insofferenza verso il governo Berlusconi, per la lentezza e le contraddizioni con cui procede alle “riforme” e orchestra, con l’ausilio di stampa e televisione, una campagna d’autunno di attacco al piccolo commercio che fa aumentare i prezzi. E i leader sindacali sempre succubi di qualche frazione borghese si accodano appoggiando gli “scioperi” dei consumatori.
E’ una campagna per forzare il governo nazionale ma anche alcune Regioni a eliminare la legislazione che ostacola la diffusione della grande distribuzione.
In Italia le piccole imprese nel commercio, protette da leggi e leggine, sono costantemente aumentate, salvo una stasi fra gli anni ’80 e gli anni ‘90. Se nel 1951 le imprese commerciali erano 867 mila e nel 1971 un milione e 180 mila ( con 2,8 milioni di addetti), nel 2000 erano salite a 1 milione e 342 mila (con 3,2 milioni di addetti, il 70,5% dei quali lavora in imprese con meno di 10 dipendenti).
Il proliferare dei negozi in concomitanza con un sostenuto aumento dei consumi, è un fenomeno comune a tutti i paesi a capitalismo maturo, ma è specifica dell’Italia la modesta concentrazione. L’OCSE sottolinea come in Italia ci siano 130 negozi per ogni 10 mila abitanti, un dato inferiore solo a quelli di Portogallo (150) e Spagna (133), ma doppio rispetto ai 64 negozi della Francia, e quadruplo rispetto ai 35 della Germania e ai 36 della Gran Bretagna («Sole 24Ore», 26-9-03). La quota di lavoro dipendente, tuttavia, anche in Italia aumenta, sia pure lentamente. Se nel 1984 i lavoratori dipendenti del commercio erano solo il 30% degli attivi, nel 2002 erano il 53,2% (Relazione annuale Bankitalia relativa al 2002). Ma negli Usa i dipendenti del commercio sono il 94% degli attivi, cioè in un rapporto di 16 a 1 rispetto agli indipendenti, mentre in Italia sono in un rapporto di 1 a 1.
Non c’è dubbio che il proletariato ha tutto da guadagnare da un processo di concentrazione che crea lavoro dipendente. La forte presenza di piccolissime imprese è una ragione di debolezza per il proletariato, sia sul piano della minore possibilità di organizzazione sindacale che della diffusione di ideologie borghesi.
In passato, complici le centrali sindacali e i partiti parlamentari, il proletariato è stato asservito agli interessi della piccola borghesia nella logica delle “alleanze”. Oggi i vertici sindacali, con una parola d’ordine come “la difesa dei consumatori” propongono uno slogan altrettanto interclassista, questa volta al servizio del medio e grande capitale.
Il potere d’acquisto dei lavoratori si difende col salario e non in un generico fronte dei consumatori che accomunerebbe il libero professionista e il metalmeccanico, la commessa e il gioielliere.
La classe lavoratrice ha già dato Nel frattempo l’autolimitazione salariale accettata da un sindacato subalterno ha di fatto lasciato alla piccola borghesia margini per sopravvivere in una situazione di bassa concentrazione.
Da più di quarant’anni le pensioni dei coltivatori diretti, dei commercianti e degli artigiani sono pagate in buona parte dai lavoratori dipendenti, che non possono godere delle minori contribuzioni e dell’impunità contributiva garantita invece a queste categorie della piccola borghesia. Oggi per far fronte al “dissesto previdenziale” nessun partito parlamentare osa alzare la voce contro i minori contributi di questi ceti. E come unico capro espiatorio viene scelto il lavoratore co.co.co, le cui aliquote vengono aumentate. Agli inizi del 2003 circa 2 milioni e 152 mila lavoratori vengono contabilizzati ufficialmente sotto questa sigla, che spesso copre forme mascherate e sottopagate di lavoro dipendente.
Se dissesto previdenziale esiste, il lavoro dipendente ha già dato.






A.M.

Pubblicato su: 2004-11-13 (1889 letture)

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