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N°50 Pagine Marxiste - Dicembre 2021
Una riforma fiscale per i ricchi



Da circa un anno le Commissioni Finanze di Camera e Senato hanno “lavorato” sulla questione fiscale, con decine di audizioni di esperti e funzionari pubblici, che hanno fornito un quadro abbastanza chiaro del sistema fiscale italiano.
Come già riportato (1), una delle sintesi più lucide è stata quella dell’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco (PD): “In sintesi, mentre fino agli anni ’80 del secolo scorso, i redditi di lavoro rappresentavano percentuali del reddito complessivo pari al 60-65%, oggi tale quota, comprensiva anche dei redditi di lavoro indipendente, risulta in Italia inferiore al 50% (47%), al contrario, i prelievi, fiscali e contributivi, direttamente commisurati ai redditi di lavoro, rappresentano il 18% del Pil e quelli commisurati agli altri redditi solo il 6%. In altre parole, il 47% del reddito prodotto paga oggi il 75% del gettito fiscale complessivo, e il 53% solo il 25%.” Da ciò egli deduce che “Si tratta di uno squilibrio eccessivo, alla lunga insostenibile, che penalizza l’impiego di lavoro (cuneo fiscale) ed indica la necessità di trasferire una parte del prelievo sui redditi di capitale riducendo l’Irpef e fiscalizzando i contributi sociali”.
Un piccolo calcolo aritmetico ci dà che su uno stesso reddito i lavoratori dipendenti pagano mediamente 3,4 volte le imposte e contributi pagati dagli indipendenti (imprenditori e lavoratori autonomi). Una enorme iniquità fiscale che ci restituisce il carattere borghese e antioperaio dello Stato (a parte il fatto che è la negazione della previsione costituzionale della progressività delle imposte [art. 53], ma come sappiamo la Costituzione italiana come e più delle altre è, a partire dall’art. 1, l’imbellettamento populista della società capitalista).
Se non è possibile immaginare un sistema fiscale socialmente “giusto” quale colonna portante dello Stato borghese, esso in un modo o nell’altro è influenzato dalla dinamica dei rapporti tra le classi. Quando venne istituita l’IRPEF (Imposta sui redditi delle persone fisiche), nel 1972, il Parlamento e il Governo legiferarono sotto la pressione della più grande ondata di lotte operaie della storia dell’Italia repubblicana, iniziata con l’autunno caldo del 1969. Gli operai con la lotta erano in grado di strappare aumenti salariali che coprissero gli aumenti dei prezzi (per questo Gianni Agnelli concesse la scala mobile dei salari, per ottenere la “pace sociale”) e delle tasse. Per questo venne varata una imposta sui redditi con ben 32 scaglioni di aliquota, che salivano progressivamente dal 10% per i redditi più bassi, fino al 72% per quelli più alti. Sulla carta, un fisco Robin Hood, con i ricchi che avrebbero dovuto cedere allo stato quasi i tre quarti del loro reddito personale (in realtà gran parte dei redditi dei ricchi sono stati progressivamente sottratti all’IRPEF). Negli anni seguenti, con il riflusso delle lotte operaie, anche l’IRPEF venne modificata, aumentando progressivamente l’aliquota inferiore, dal 10% al 23% attuale, e venne ridotta l’aliquota superiore, dal 72% al 43% attuale (per i redditi superiori a 55.000 euro).
I redditi più alti prima dovevano pagare 7 volte quelli bassi, ora neanche il doppio. Ma in realtà, come risulta dalla sintesi di V. Visco, nel loro complesso pagano molto meno, perché gran parte dei redditi dei ricchi non è soggetta all’IRPEF, con i redditi finanziari che sono tassati tra il 12,5% il 26%, i profitti al 24% con l’IRES. Inoltre i redditi delle ditte individuali e partite IVA hanno avuto dal governo Lega-5Stelle il privilegio dell’imposta al 15% fino a 65.000 euro (un lavoratore dipendente sopra i 28.000 euro deve pagare il 38%): un fisco che è diventato anche formalmente di classe, abbandonando anche la parvenza dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e allo Stato. A parità di reddito, un lavoratore dipendente deve pagare molte più tasse di un professionista o commerciante (che ha anche molte più possibilità di evadere) per il solo fatto che è un lavoratore dipendente.
Cambieranno le cose con la “riforma fiscale” in preparazione? Al termine dell’indagine conoscitiva, i partiti hanno fornito alle Commissioni Finanze di Camera e Senato le proprie proposte di “riforma fiscale”. Abbiamo esaminato le proposte dei 7 principali partiti parlamentari: PD, 5Stelle, Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Italia Viva, Liberi e Uguali, e in nessuna abbiamo trovato espressa la volontà di porre rimedio all’iniquità di cui sopra, né proposte concrete in tale direzione.
Il PD pone solo il problema di modificare la combinazione tra scaglioni, detrazioni e bonus fiscale per evitare salti nella curva IRPEF, e l’aumento dell’imposta sulle successioni (che come incidenza sul PIL in Italia è un quarto di quella tedesca, un quinto di quella inglese e meno di un decimo di quella francese), ma senza tassare quelle sotto… 1 milione di euro (una soglia davvero proletaria!), e dice un no chiaro alla patrimoniale.
Il M5S afferma platealmente che l’obiettivo della riforma fiscale deve essere “la crescita”, non la ridistribuzione della ricchezza, che va attuata tramite “sussidi e servizi”. Propone la Dual Income Tax, ossia la tassazione separata (come del resto già avviene) dei redditi da lavoro e redditi finanziari, questi da tassare con il primo scaglione IRPEF: quindi il 23%, riducendo l’attuale aliquota del 26%. Ossia: far pagare ancora meno i ricchi che vivono di rendita! Per quanto riguarda l’IRPEF, appoggia la proposta del Ministero delle Finanze di un addolcimento degli scaglioni, con il 23% fino a 25.000 euro, e il 33% fino a 55.000. E forse vergognandosi un po’ di aver dato ai piccoli borghesi la flat tax al 15% propone di ridurre il tetto da 65 a 55 mila euro, ma con agevolazioni per chi cresce oltre quella soglia…
Forza Italia mette insieme una dozzina di proposte che hanno un sapore elettoralistico perché vorrebbero soddisfare tutti, dalla sanatoria per gli evasori chiamata “pace fiscale” alla tassazione al 15% degli aumenti di reddito (per favorire la “crescita”, ovviamente), al superamento dell’IRAP per le imprese, la eliminazione/riduzione dell’imposta di successione (giusto che la ricchezza si trasmetta geneticamente), e anche una “no tax area” di 12 mila euro, insieme alla riduzione delle aliquote IRPEF, mentre curiosamente propone di alzare la flat tax al 23% sopra i 25 mila euro. Un tentativo forse di recuperare voti operai dando per persi a favore della Lega e FdI quelli della piccola borghesia.
Fratelli d’Italia a sua volta cerca di accattivarsi il “ceto medio” dipendente riducendo ancora più la progressività dell’IRPEF (da 28 mila fino a 55 mila euro resterebbe il 27% al posto del 38%), per poi portare la flat tax del 15% anche al lavoro dipendente, ma… “a medio termine”, e poi elenca una lunga serie di agevolazioni per professionisti, imprenditori, proprietari immobiliari, in concorrenza con… la Lega, che propone l’esenzione dell’IMU sulle case dalla seconda in poi nei comuni fino a 30 mila abitanti, oltre all’imposta sostitutiva del 15%, e l’esenzione contributiva, per gli incrementi di reddito sia per i lavoratori (che così non avranno gli aumenti sulla pensione) e le imprese (che pagheranno meno tasse e contributi negli anni delle vacche grasse). Salvini, a caccia dei voti di negozianti e professionisti, continua a lanciare la proposta di estendere la flat tax del 15% fino a 100 mila euro di reddito (un regalo di più di 20 mila euro alle fasce alte, pagato dai lavoratori dipendenti). LEU e Italia Viva propongono l’adozione del modello americano di imposta negativa fino a un certo livello di reddito, che negli USA sostituisce i nostri assegni familiari. Mentre I. Viva propone tutta una serie di misure a favore di imprese e redditi finanziari, LEU è l’unico gruppo parlamentare a parlare di patrimoniale, ma ponendo il limite massimo dell’1%, eliminando al suo posto le imposte su patrimoni e redditi da capitale, inclusa l’IMU: una “patrimoniale” che convenga anche ai miliardari…
Niente di nuovo sotto il sole. Il Parlamento, il sistema dei partiti parlamentari si dimostrano istituzioni della borghesia, grande e piccola, essi stessi composti in gran maggioranza da esponenti di questa classe: alla Camera solo 5 su 630 deputati sono ex operai, neanche uno su cento, a fronte di più di 100 tra imprenditori e dirigenti e ben 71 avvocati. I governi che si sono succeduti, espressione principalmente della grande borghesia, hanno mediato con i parlamenti le varie “riforme fiscali” fino all’attuale assetto, e la riforma in discussione ritoccherà il sistema cercando di adeguarlo ai nuovi equilibri tra le frazioni e settori della grande e piccola borghesia, non certo a favore dei proletari. Né saranno le visite a Palazzo Chigi di Landini & C. per avere qualche briciola in più degli 8 miliardi di riduzione del “cuneo fiscale” a ribaltare la situazione. Senza chiamare i lavoratori alla lotta, non c’è da aspettarsi alcuna significativa modifica dell’iniquità e regressività di fondo del sistema fiscale italiano.
Il sistema fiscale già opera una gigantesca operazione redistributiva alla rovescia (ancora V. Visco: : “Le tasse in Italia (ma non solo) risultano nel loro complesso progressive per i redditi bassi, proporzionali per gran parte dei contribuenti, regressive per i redditi alti”), e possiamo stimare che il fisco ridistribuisca circa 150 miliardi annui, l’8% del PIL, dai lavoratori ai ricchi (2). Non basta l’ineguaglianza determinata da un crescente sfruttamento, che in 40 anni ha ridotto la quota dei salari da quasi il 60% del PIL al 47%. Il sistema fiscale, che secondo l’ideologia democratica dovrebbe essere “progressivo” e ridistribuire parte dei redditi dai ricchi ai poveri, opera nel senso opposto, prelevando molto di più dai lavoratori dipendenti che dagli imprenditori e lavoratori indipendenti in generale.
Questo significa anche che il fisco contribuisce fortemente all’ineguaglianza sociale e all’accumulazione della ricchezza. Se si calcola (1) che i borghesi hanno pagato meno tasse rispetto ai salariati per un importo annuo pari all’8% del PIL, solo negli ultimi dieci anni hanno accumulato quasi 1.500 miliardi di ricchezza solo grazie ai privilegi fiscali. Secondo uno studio (3) il 10% più ricco degli italiani è salito da meno di metà della ricchezza complessiva nel 1995 a oltre il 60% nel 2016. Altri calcoli danno il 50% del PIL al 10% più ricco (e il 25% circa all’1%). Dato che il totale della ricchezza è stimato intorno a 8 volte il PIL, il 10% dei più ricchi possiede una ricchezza pari a 4-4,8 volte il PIL, pari a 7.200-8.600 miliardi. Una imposta patrimoniale del 10% sul 10% più ricco, come rivendicato dal Patto d’Azione frutterebbe quindi tra i 720 e gli 860 miliardi di euro, ammesso e non concesso che riuscisse a intercettare tutti i loro patrimoni. Si tratta di una somma quasi quadrupla dei fondi europei per il PNRR, una cifra che permetterebbe tra l’altro di rilanciare la sanità su una base universale, gratuita e mirata alla prevenzione a partire dal territorio, di aprire migliaia di asili nido e scuole materne, di realizzare progetti per la protezione dell’ambiente. Non si tratterebbe di un esproprio, i ricchi non sarebbero chiamati a restituire neppure quanto hanno pagato in tasse in meno rispetto ai lavoratori dipendenti in un decennio, e manterrebbero il 90% delle loro ricchezze. Non una rivoluzione, ma una rivendicazione in sé compatibile con il sistema economico capitalista (non abbiamo mai pensato che il capitalismo possa essere rovesciato o crollare a seguito di rivendicazioni economiche). Ma che può favorire la creazione di un fronte di lotta anticapitalista. Il fatto che tutti i partiti si dichiarano contro la patrimoniale ne fa tuttavia una rivendicazione che pone i lavoratori salariati, e lo strato inferiore degli autonomi, contro tutto il sistema politico, difensore della borghesia, e quindi mette a nudo il carattere classista della società capitalista e del sistema politico italiano. Questa rivendicazione, fatta propria dal Patto d’Azione per un fronte unico anticapitalista e dall’Assemblea delle lavoratrici e lavoratori combattivi, va portata avanti con una campagna politica di massa, capace di coinvolgere lavoratori e disoccupati nei territori, anche coloro che non possono organizzarsi sindacalmente perché lavorano in aziende troppo piccole.
Una tale campagna deve però affrontare anche l’altro corno del problema: la forte tassazione delle buste paga. Va affermato il principio che un salario necessario per vivere non deve essere tassato, e quindi l’esenzione fiscale fino ad almeno 18-20 mila euro di imponibile IRPEF annuo (tra 1.300 e 1.400 euro lorde per 14 mensilità), una più bassa aliquota di base rispetto al 23% per le prime fasce sopra questo livello, e una più ripida progressività sopra il doppio del minimo esente. Oltre all’assoggettamento dei redditi finanziari a una tassazione almeno pari a quella dei redditi medio-alti. Solo in questo modo il sistema fiscale cesserebbe di essere un meccanismo perverso di redistribuzione dai ricchi e rentier ai lavoratori dipendenti. In questo modo la battaglia sul terreno fiscale si collega alla lotta per la difesa del salario, in un lungo ciclo di riflusso delle lotte economiche dei lavoratori, che ha visto i salari italiani diminuire in trent’anni, unico paese in Europa e tra i pochi al mondo. La riforma fiscale abbozzata dal governo al momento in cui andiamo in stampa prevede invece sgravi soprattutto per la fascia alto-impiegatizia e dirigenziale tra i 35 e i 50 mila euro di reddito annuo, mentre gli sgravi per i livelli di reddito operai non recupereranno neanche il fiscal drag, che sta divenendo pesante con l’inflazione che cresce (si pagano più tasse su salari che aumentano in termini di euro, ma diminuiscono in termini di potere d’acquisto).
I vertici di CGIL, CISL e UIL, che il 29 novembre hanno balbettato davanti a Draghi e Franco la loro richiesta di più sgravi sui salari, si sono sentiti rispondere che la proposta del governo, frutto di un compromesso tra i partiti borghesi, non cambia. E con la coda tra le zampe se ne sono andati senza la minima intenzione di chiamare i lavoratori alla lotta, come già sulle pensioni.

Non ci illudiamo che una battaglia sul fisco possa portare una società equa. Le ineguaglianze e “ingiustizie” sociali hanno la loro radice nei rapporti di produzione capitalistici, in una società divisa in classi, in cui la borghesia si appropria del prodotto del lavoro dei proletari, in cui lo scopo dell’attività produttiva è il profitto di pochi e non i bisogni di tutti. Non può essere una diversa tassazione, neppure abbinata a un welfare più attento ai bisogni, che cancella l’ingiustizia del rapporto di sfruttamento e l’ineguaglianza che ne deriva. Ma una battaglia politica sul terreno fiscale, se riesce a coinvolgere masse di lavoratori insieme a quella per un salario di sussistenza sotto il quale per legge non si può retribuire il lavoro (ad es. 10 euro l’ora per 14 mensilità, cifra che per quanto modesta in Italia solleverebbe dalla condizione di working poor diversi milioni di lavoratrici e lavoratori tenuti molto al di sotto di questo livello dalla stessa contrattazione dei confederali, non solo dei sindacati pirata) e per il salario medio garantito corrispondente (10 euro per 173 ore mensili) per disoccupati e precari, può mettere a nudo il carattere borghese dei partiti parlamentari, compresi quelli populisti, e far comprendere a molti lavoratori la necessità di un fronte unico di classe e di una lotta per il rovesciamento di questo sistema. ■



NOTE



1.Articolo pubblicato su Pungolo Rosso

2. Se, come afferma V. Visco, sul 47% di reddito che va in salari viene prelevato il 75% delle imposte dirette, mentre sul 53% che va alla grande e piccola borghesia viene prelevato solo il 25%, dato che le imposte dirette pesano per il 14,4% del PIL ne deduciamo che su salari e stipendi si preleva il 10,8% del PIL in tasse, pari a un’aliquota media del 23% circa, mentre sugli altri redditi viene prelevato solo il 3,6% del PIL, ossia un’aliquota media del 6,8% sui loro redditi. Se i profitti, i dividendi, le rendite immobiliari e finanziarie, i redditi dei liberi professionisti pagassero anche solo in proporzione ai lavoratori dipendenti, dovrebbero pagare circa 16 punti in più di imposte dirette, pari a oltre 8 punti del Pil, circa 150 miliardi annui.

3. Studio di Paolo Acciari, Facundo Alvaredo, e Salvatore Morelli per il National Bureau of Economic Research americano, basato sui lasciti ereditari.





Pubblicato su: 2021-12-06 (190 letture)

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