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N°48 Pagine Marxiste - Gennaio 2020
Un mondo in rivolta



L’attentato Usa a Bagdad in cui è stato ucciso il generale iraniano Qassem Soleimani, che segnala l’inasprirsi della contesa internazionale in Medio Oriente, oscura nei media l’ondata di proteste e sollevazioni che hanno caratterizzato gli ultimi mesi del 2019, le quali per intensità, durata e masse coinvolte non ha precedenti negli ultimi trent'anni, aprendo nuove prospettive alle lotte delle classe subalterne nel mondo.
Teatro ancora il Medio Oriente ( Libano, Iraq, Iran), l’Africa (Algeria, Sudan), America Latina (Cile, Bolivia, Ecuador, Haiti), ma anche Hong Kong. Qualche dietrologo ha voluto vedere una regia “esterna” (in particolare statunitense) dietro questi sommovimenti.
Noi riteniamo che alla loro base vi siano le profonde contraddizioni sociali del sistema capitalistico, anche se sempre imperialismi e potenze regionali cercano di utilizzare le contraddizioni in casa altrui per avvantaggiarsi, ma sono unite contro il potenziale rivoluzionario anticapitalista delle sollevazioni.
Se volessimo trovare una chiave comune di lettura delle rivolte del 2019 essa si trova nelle crescenti ineguaglianze sociali, aumentate anche nell’espansione seguita alla crisi del 2008. Espansione differenziata nelle diverse aree e mancata in alcuni paesi fra cui l’Italia. Mentre la massa dei profitti ha superato quella di ogni ciclo precedente (in particolare, ogni dipendente delle grandi multinazionali ha prodotto un profitto quasi doppio rispetto al passato), al contrario i lavoratori, eccetto in alcuni casi, non hanno tratto alcun vantaggio da questa espansione. Anzi il divario fra i loro redditi e quelli dei grandi ricchi si è allargato a dismisura. Il report dell’ultimo World Forum di Davos si intitolava (“The Global Risks Report 2019”) lo ammette. Vi si legge che nel 2018 “le fortune dei super-ricchi sono aumentate del 12% … al ritmo di 2,5 miliardi di dollari al giorno, mentre 3,8 miliardi di persone, che costituiscono la metà più povera dell’umanità, hanno visto decrescere quel che avevano dell’11% .... Da soli 26 ultramiliardari possedevano una ricchezza equivalente a quella della metà più povera del pianeta”. Da questa situazione di ingiustizia palese il report faceva derivare “un probabile aumento degli sconvolgimenti sociali”.

E puntualmente essi si sono verificati. In America Latina e in Medio Oriente le masse sono entrate in movimento soprattutto in base alla percezione dell’ingiustizia e dell’oppressione sociale, che si manifesta sia come divario di reddito, che come mancanza di welfare (progressiva riduzione di protezione sanitaria, di istruzione, acqua, trasporti e case a prezzi accessibili), combinati con discriminazioni etniche, religiose o di genere, ma anche con l’aumento della corruzione di politici e funzionari, e infine con un vero e proprio “stato di polizia”.
Le masse non scendono in piazza per il piacere di farlo, lo fanno quando le loro condizioni di vita sono inaccettabili e di fronte a loro si dispiega la ricchezza insolente dei potenti. Quando intravedono la possibilità di ribaltare la situazione con la lotta.
L’America Latina e i paesi arabi, le regioni dove sono in corso le più estese e persistenti lotte, non a caso sono anche le regioni con la più forte ineguaglianza sociale. I lavoratori di questi paesi, a prezzo del loro sangue, stanno dando una lezione di dignità, fierezza, coraggio e voglia di riscatto a tutto il mondo.

In Medio Oriente e in Africa una massa di giovani, mai così ampia, istruita e senza prospettive, che tramite internet può confrontarsi con le condizioni di vita dei coetanei di altre aree del mondo, sta cercando di scrollarsi di dosso gli oppressori siano essi in tonaca, in doppiopetto o in divisa. Quel che più colpisce, infatti, è il rifiuto della confessionalizzazione della politica, confessionalizzazione “settaria” creata per distrarre i proletari dai loro interessi di classe e stravolgere il malcontento sociale in conflitto religioso. Ha inciso in questo la lenta dissoluzione dei legami tribali e la secolarizzazione tipica della società urbana e capitalistica. Dove la contrapposizione di classe è più evidente i lavoratori salariati, i disoccupati, i poveri in genere sperimentano come la solidarietà etnica e confessionale si indebolisca e come li accomunino medesime condizioni di vita, medesimo sfruttamento da parte del capitale locale e internazionale. Comuni interessi e comuni nemici. Per questo ovunque, e in modo particolare in Libano, Iraq e Iran, le masse in movimento si vengono a scontrare con le strutture confessionali in vario modo istituzionalizzate nel sistema politico, e si scontrano non solo con la repressione statale, ma anche con quella spesso ancor più violenta delle milizie a base confessionale (Hezbollah e Amal in Libano, Hashd al-Shaabi in Iraq, le milizie islamiche in Iran).
Oltre alla presenza dei proletari e dei giovani in piazza colpisce il protagonismo delle donne, velate o meno, ma combattive come gli uomini. Come gli uomini le giovani sono istruite, ma discriminate, private di diritti legali fondamentali, spesso escluse dal mercato del lavoro e ridotte a casalinghe o concubine.
Va da sé che in Medio Oriente ha pesato e pesano i disastri provocati dagli interventi militari, cui ha partecipato anche l’Italia, che hanno provocato morti, distruzioni, milioni di mutilati, disabili, profughi. Lì il volto feroce dell’imperialismo, con la maschera dei “volonterosi” e dei “profeti di democrazia” si è mostrato in tutta chiarezza, ma anche si è smascherata la brama espansionista delle potenze capitaliste regionali dalla Turchia, all’Iran, all’Arabia Saudita.
L’America latina è un’area colpita pesantemente dalla crisi del 2008-9, è fra quelle che nel periodo 2007-18 ha avuto l’aumento del PIL più debole, con un peggioramento assoluto negli ultimi 5 anni.

L’esecuzione di Soleimani nel quadro dello scontro

interimperialistico in Medio Oriente

Nella notte fra il 2 e il 3 gennaio, per ordine del presidente statunitense Trump, missili lanciati da un drone hanno attaccato un  convoglio all’aeroporto di Bagdad (Iraq). Fra le 10  persone uccise i veri obiettivi dell’attacco: Qassem Soleimani, comandante della Forza Quds, il corpo speciale estero delle guardie rivoluzionarie iraniane e Abu Mahdi al-Mauhandis, fondatore della milizia irachena Kataib Hezbollah, parte di Hashd al-Shaabi (Forze di Mobilitazione popolare), emanazione della Forza Quds in Iraq e oggi inquadrate stabilmente nelle forze di sicurezza irachene con circa 140 mila uomini.

Soleimani, 62 anni, una vita al servizio del governo khomeinista, fautore della repressione del movimento degli studenti nel 1999, era la mente e l’artefice dell’espansionismo iraniano in Medio Oriente. E’ la forza Quds che ha armato e addestrato le milizie sciite irachene contro l’invasione Usa del 2003; che arma e addestra i gruppi paramilitari sciiti in Libano (Hezbollah), striscia di Gaza, Siria e Yemen. Nel 2015 Soleimani ha difeso Bagdad dall’assalto dello Stato Islamico e nel 2016 ha guidato la presa di Aleppo. Contemporaneamente ha acquisito il controllo militare ed economico di intere aree irachene al confine con l’Iran, intimidendo il governo centrale e organizzando sortite contro soldati e mercenari Usa.

Durante le proteste anti-governative a Baghdad, Bassora e in altre città irachene, sono le milizie che fanno capo a Hashd al-Shaabi a sparare sui dimostranti uccidendone diverse centinaia.

L’idea di assassinare Qassem Soleimani era stata avanzata  pubblicamente da un editoriale del Wall Street Journal del 31 dicembre, quando l’ambasciata Usa a Bagdad collocata nell’intoccabile “zona verde”, era stata attaccata da migliaia di manifestanti mobilitati da al-Hashd al-Sha'bi, l’ultima di una serie di prove di forza fra i due contendenti.1 Secondo il quotidiano l’Iran non sarebbe stato in grado di andare oltre le minacce verbali. E se l’attentato avesse aumentato il prezzo del petrolio, gli Usa non verrebbero danneggiati, visto che ormai i loro rifornimenti sono garantiti dal loro petrolio di scisti. L’attentato è utile a Trump perché distrae dal procedimento di impeachment ed è un importante messaggio di deterrenza per il governo iraniano. Dopo l’assassinio di al-Bagdadi, l’uccisione di Soleimani è un altro fiore all’occhiello per Trump, nel quadro delle eliminazioni “mirate” dei nemici Usa. Ma pare un fiore avvelenato, in cui gli effetti indesiderati potrebbero superare quelli voluti. La risonanza e l’impatto negli equilibri regionali appaiono molto  più ampi. Il Pentagono si era premunito con l’invio di almeno 750 soldati destinati all’Iraq (quelli ora di stanza in Kuwait). E si stima in 4mila i nuovi soldati che verranno strategicamente collocati in vari snodi mediorientali.

La prima reazione all’assassinio di Soleimani e Mauhandis sono state le manifestazioni di massa antiamericane in Iraq e in Iran, organizzate sì dagli apparati filo-iraniani, ma in cui in Iraq si esprimevano profondi sentimenti contro gli occupanti USA, che 16 anni dopo aver “portato la democrazia” devono restare asserragliati nella zona verde di Baghdad e nelle basi militari per avere salva la pelle; in Iran di fianco alla ribellione contro l’oppressione del regime non può non esservi un sentimento ostile agli USA per le dure sanzioni di cui soffre la popolazione.

Ma anche la reazione iraniana si è rivelata un boomerang. La rappresaglia con l’attacco alle basi USA è stata una messinscena ad uso interno dell’establishment iraniano, che aveva preavvisato gli americani tramite istituzioni irachene, per cui i 12 o più missili iraniani non hanno fatto vittime… americane, mentre hanno ucciso 176 persone sull’aereo di linea ucraino abbattuto per un fatale errore delle forze dei Guardiani della (contro)Rivoluzione (di cui 145 emigrati iraniani), e altre 70 persone sono morte nella calca dei funerali di Soleimani. Questi fatti hanno sollevato imponenti proteste a Teheran e in altre città contro il regime, con la richiesta delle dimissioni della stessa Guida Suprema Khamenei. Mentre in Iraq sono riprese le manifestazioni anti-governative e anti-ingerenza iraniana.

Il risultato non voluto potrebbe essere il rafforzamento del movimento proletario e popolare in Iraq contro il governo corrotto e per i beni essenziali e i servizi pubblici, e allo stesso tempo del nazionalismo iracheno, anti-USA e anti-Iran, e in Iran la ripresa delle manifestazioni anti-regime, operaie e studentesche, soffocate nel sangue a novembre.

C’è chi, anche a sinistra, ha il riflesso condizionato di difendere il regime iraniano contro l’aggressione USA. I fatti mostrano che i regimi USA e iraniano, insieme a quelli russo, turco e agli imperialismi europei sono tutti reazionari perché si scontrano tra loro per spartirsi l’area mediorientale. Essi sono tutti oppressori e nemici dei proletari. Il nostro riferimento sono le rivolte popolari che crescono nell’area e che essi cercano di soffocare.


Nota 1 Nell’ordine citiamo: giugno 2019 - Iran abbatte un drone statunitense;

14 settembre - presunti attacchi iraniani alle petroliere saudite nel Golfo;

29 dicembre - attacchi aerei Usa alle basi della milizia Kataib Hezbollah sul confine iracheno-siriano (morti 25, feriti 50).

Il debito, le svalutazioni e quindi l’inflazione sono il problema principale dei paesi latino americani. In molte aree processi di deindustrializzazione, politiche neoliberiste estreme hanno fatto prevalere una economia da monocultura, cioè legata alla sola esportazione di materie prime , minerarie o agricole. E’ il caso del Venezuela e in parte dell’Argentina. In America latina non pesa il settarismo religioso: al suo posto per dividere i proletari vengono utilizzate le divisioni razziali. C’è inoltre una estrema concentrazione della ricchezza, una corruzione endemica, una massiccia evasione fiscale da parte dei grandi ricchi, mentre l’urbanizzazione selvaggia ha portato a un imbarbarimento della vita quotidiana, la criminalità urbana è pesantissima per la gente comune (mentre i grandi ricchi sono asserragliati e protetti nelle loro villone con gorilla). Dagli anni ’70 ereditano un pesante retaggio di dittatura, l’uso disinvolto della violenza poliziesca, della tortura, delle squadracce paramilitari.
In epoca recente i regimi si sono diversificati.
Abbiamo esempi di governi che si possono definire “populisti di sinistra” (Chavez, Morales, Lula, ecc.) che, negli anni delle vacche grasse dei prezzi alti delle materie prime, hanno redistribuito in parte le ricchezze, allentando la morsa della povertà per strati anche ampi di popolazione, ma poi sono caduti nella stretta del debito. Soprattutto (nel caso di Venezuela e Bolivia) hanno deindustrializzato o non industrializzato, restando a livello delle microimprese artigianali inadeguate a reggere la concorrenza internazionale.
Altri paesi che coerentemente hanno applicato la ricetta liberista hanno ottenuto significativi risultati in termini di PIL.
É il caso del “miracolo cileno”, realizzato dal primo Piñera, José, fratello dell’attuale presidente), ma a prezzo di privatizzare istruzione, sanità, pensioni, peggiorando le condizioni della massa. Tra l’altro nonostante il cambio di involucro politico (dalla dittatura di Pinochet alle libere elezioni democratiche, con l’alternanza Piñera/Bachelet) la ricetta economica non sembra cambiata. Queste privatizzazioni hanno arricchito le élite e buttato nell’incertezza e nella miseria ampi strati di lavoratori (e quindi l’aumento del PIL pro capite è la famosa “media del pollo”).
A metà fra i due modelli l’Argentina dei Kirchner (12 anni di governo), che ripristina in parte il welfare state, ma non riesce a ridurre la sperequazione sociale e nel 2014 collassa sotto il peso dell’inflazione “bruciando” i risparmi delle famiglie. Torna il liberismo sfrenato con la presidenza Macri (2014-19), ma il nuovo presidente Fernandez, che vorrebbe dare ai poveri senza togliere ai ricchi sembra una riedizione fuori tempo di Chavez senza il petrolio.

In questo quadro interviene l’attentato a Soleimani (vedi riquadro). Nessun lutto, oggi, per la morte del macellaio Soleimani, responsabile della sanguinosa repressione dei lavoratori in lotta in Iraq e Iran, degli episodi di pulizia etnica in Iraq e Siria, dei massacri in Yemen.
Ma condanna netta e senza appello del mortifero attacco statunitense, ipocritamente giustificato con la necessità di difendere “vite umane”. Non solo condanna perché si tratta dell’ennesimo intervento biecamente imperialista, ma perché l’attacco Usa cerca di spostare la lotta politica in Iraq e Iran dalla protesta sociale alla scelta di campo tra le potenze, dà un alibi al regime iraniano e a quello iracheno per ignorare le proteste sociali appellandosi alla solidarietà nazionale, deviando la protesta sul terreno del nazionalismo. Cacciare gli Usa o liberarsi dell’Iran diventerebbero il fulcro delle questioni interne, le sollevazioni popolari verrebbero messe a tacere in nome della patria e le vecchie oligarchie resterebbero impunemente al potere.
Un’eventuale recrudescenza del conflitto armato avrebbe per le borghesie locali ed estere il “vantaggio” (sappiamo a quale prezzo di sofferenze e di vite umane) di oscurare l'ondata di insurrezioni, in Medio Oriente e altrove. Un vantaggio per tutte le borghesie: negare il protagonismo delle masse, proseguire la repressione lontano dai riflettori, cancellare negli stessi protagonisti delle lotte la consapevolezza del loro ruolo!
Naturalmente l’America di Trump non vuole solo reprimere i movimenti di lotta. Attacca direttamente il progetto geopolitico dell’Iran. Ma il nemico reale e non dichiarato sono gli imperialismi rivali, Cina in primis e di conserva la Russia, che stanno a loro volta erodendo mercati, alleanze economiche e politiche in tutti i continenti Mentre scriviamo i movimenti di lotta sono ancora in corso. Il rischio reale è che, senza una direzione di classe , prevalgano alla fine le tendenze al compromesso dei ceti professionali (medici, avvocati, ingegneri), oppure ci sia un semplice recupero di potere delle vecchie oligarchie.
Le borghesie locali, dove non riescono a reprimere semplicemente, stanno cercando già di deviare chi lotta verso obiettivi compatibili (il nazionalismo, l’intolleranza verso le minoranze, siano profughi o immigrati).
Ci resta da sottolineare il vuoto internazionale della sinistra rispetto a questo giovane proletariato in lotta. Purtroppo non esiste un’organizzazione internazionale dei lavoratori che li supporti e generalizzi ulteriormente questo esempio. Non esiste neanche un esteso interesse per queste lotte. Solo piccole minoranze ne studiano le dinamiche per capirne le prospettive. Prospettive che sono incerte, con il rischio che siano sconfitte o ricondotte dentro l’alveo borghese se non arrivano a esprimere organizzazioni rivoluzionarie anticapitaliste.
D’altra parte lamentare l’assenza di una direzione rivoluzionaria in quei paesi è un contributo sterile se non si è capaci di radicare una organizzazione rivoluzionaria là dove si opera. Il nostro contributo all’affermazione di correnti rivoluzionarie nei paesi dove le masse sono in movimento deve partire dalla formazione di una tendenza rivoluzionaria e internazionalista qui e ora, in Italia e in Europa, capace di influire sul movimento reale della classe, andando oltre le lotte settoriali. ■







Pubblicato su: 2021-02-03 (198 letture)

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