Editoriale
Gli avvenimenti che determinano le condizioni della nostra esistenza sono sempre più originati fuori dell’Italia: dalle dinamiche di crisi-espansione-crisi del capitale alle guerre calde e fredde degli Stati, alle proteste di massa che scuotono America Latina, Nordafrica e Medio Oriente cui si aggiunge la Francia, mentre la politica italiana continua a giocarsi in un teatrino rinchiuso nel recinto nazionale.
Occorre aiutare i lavoratori più coscienti a emanciparsi da questo teatrino teso a catturare i loro voti per fare gli interessi dei borghesi, e guardare il mondo dal punto di vista internazionalista e anticapitalista della nostra classe, collegarsi ai movimenti proletari di lotta di paesi vicini e lontani, respingendo il nazionalismo, sovranista o europeista.
Il bilancio del decennio seguito alla crisi (vedi articolo) è chiaro. Il capitale, i padroni, la borghesia hanno saputo approfittare dell’alta disoccupazione per contenere / abbassare i salari e intensificare lo sfruttamento, e arricchirsi ancora di più. Neppure dove la disoccupazione è ridiscesa a minimi storici (Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna, Giappone) i lavoratori hanno saputo migliorare significativamente la propria posizione, per la crescente concorrenza internazionale. Le Borse hanno espresso e ancora esprimono l’esultanza della borghesia. Ma proprio le sofferenze e l’indignazione provocate da questa accresciuta ineguaglianza stanno mettendo in moto grandi masse in quattro continenti, che chiedono un cambiamento radicale, non solo di governo, ma di sistema. A questo movimento dedichiamo buona parte di questo numero di Pagine Marxiste. La sua critica al capitalismo è più morale che scientifica – contro le “ingiustizie” più che contro i rapporti di produzione capitalistici che ne sono causa – e tra chi protesta non vi è chiarezza su cosa dovrebbe sostituirlo, ma la critica al capitalismo emerge perfino nelle primarie democratiche USA, e i padroni del vapore cominciano a preoccuparsi, a chiedersi se non debbano adottare forme di dominio meno stridenti. Una nuova socialdemocrazia per contenere i movimenti sociali (in prevalenza proletari), o il populismo fascisteggiante per blandirli e reprimerli? Le sperimentazioni in entrambi i sensi non mancheranno. Come comunisti dobbiamo conoscere questi movimenti e saperci rapportare a loro, imparare dal loro slancio e dai loro errori, contribuire alla costruzione di un fronte comune di classe anticapitalista.
Al tempo stesso la concorrenza sul piano globale si fa sempre più spietata. Le concentrazioni di capitali basate in Cina, a proprietà statale o privata, piazzano ormai (anno 2018) 119 “corazzate” multinazionali tra le prime 500 imprese mondiali, a fronte delle 121 che battono bandiera statunitense, con 7,8 trilioni di dollari di giro d’affari contro 9,4 delle americane. Il sorpasso è in vista, e solo la guerra potrebbe impedirlo. Gli Stati che li rappresentano, veri e propri Leviatani con mastodontici apparati di controllo e repressione verso l’interno e di guerra verso l’esterno, si guardano in cagnesco mentre accumulano strumenti di morte sempre più sofisticati, per ora sono usati sui teatri “periferici”: Afghanistan, Siria, Yemen, Libia, Congo… Le grandi multinazionali basate nella UE sono 114, ma con l’uscita della Gran Bretagna scendono a 98, e non hanno uno Stato che le rappresenti unitariamente.
La superpotenza americana ha lanciato la guerra delle tariffe doganali, e prosegue quella delle sanzioni, senza esclusione di colpi. Ma sono armi a doppio taglio. Cina, Giappone e Sud Corea hanno stretto un patto contro il protezionismo; così anche Cina e UE; e perfino l’amerikano Bolsonaro si è dovuto recare alla corte di Xi Jinping, il maggiore acquirente della soia e del ferro do Brasil. Finché il mercato cinese si espande, a colpi di tariffe gli USA rischiano di restare isolati.
Le sanzioni sono un’arma più dura, tesa a strozzare gli Stati reprobi. Ma non hanno piegato né gli ayatollah iraniani, né Maduro né Putin. Le sanzioni varate da Congresso e Trump contro il raddoppio di Nord Stream, il gasdotto che lega a corda doppia Germania e Russia, ne hanno bloccato i lavori completati al 94%, ma rischiano di avvicinare le due potenze in un moto comune contro la prepotenza yankee, anziché separarle. Se l’impresa capofila, la svizzera Allseas, ha immediatamente abbandonato i lavori sotto le minacce USA di distruggerla e ostracizzarne i dirigenti, Gazprom afferma di possedere una nave posatubi per completare i lavori. Un’opzione per la Germania e gli europei, per non restare schiacciati tra USA e Cina, sarebbe di fare blocco con la Russia, impedendo che questa venga attratta per intero nell’orbita cinese. È la linea Macron che parla della “morte cerebrale della NATO”. Ma è un’impresa ardua per un’Europa declinante e divisa, contro la vecchia e la nuova superpotenza. È anche la linea rosso-bruna per un blocco continentale euroasiatico contro l’imperialismo USA. Una linea (social)imperialista come quella di risulta di Eurostop per un blocco italo-mediterraneo. Noi non siamo anti-americani, non siamo anti-tedeschi, non siamo anti-cinesi, siamo anticapitalisti, per una società senza classi – e per questo contro tutti gli imperialismi, a partire da quello di casa nostra.
L’uccisione di Qassem Soleimani, capo delle operazioni internazionali (Forza Qud) delle Guardie della Rivoluzione Islamica iraniane, che vantava di avere esportato la reazione islamica versione Teheran su mezzo milione di chilometri quadrati, e di Abu Mahdi al Muhandis, capo della milizia irachena filo-iraniana Kata'ib Hezbollah e vicecomandante delle “Forze di Mobilitazione Popolare” filo-iraniane, che contano 140 mila uomini e sono integrate nelle Forze Armate irachene, segnano un’escalation militare da parte degli USA nel confronto con l’Iran, a fronte della crescente penetrazione politico-militare iraniana in Iraq a 17 anni dall’invasione di USA e alleati (tra cui l’Italia). Un’escalation foriera di nuovi conflitti e massacri, e dagli esiti imprevedibili, che tende anche a deviare sul terreno degli scontri geopolitici e del nazionalismo i forti movimenti sociali a base proletaria in atto in Iraq, Iran, Libano.
L’imperialismo italiano è, insieme alla Grecia, l’unico a non avere recuperato il PIL ante-crisi; ha dimezzato tra il 1995 e il 2018 la propria presenza tra le grandi multinazionali, da 12 a 6 gruppi, di cui 3 finanziari (Generali, Intesa e Unicredit), l’ibrido Poste Italiane, e solo due industriali (ENI ed ENEL, mentre FCA era più americana che italiana). Tra le prime 500 multinazionali l’Italia schiera quindi 6 gruppi per 372 miliardi di dollari a fronte dei 29 per 2.048 miliardi della Germania e dei 31 per 1.764 della Francia; è superata anche da Spagna e Olanda. La “seconda potenza industriale d’Europa” ha molte barchette e navicelle, ma manca di corazzate. Le crisi ILVA e Alitalia sono indicative di questo indebolimento; con la fusione FCA-PSA l’Italia diventa solo un territorio secondario per quello che era stato il maggior gruppo industriale italiano. Anche sulla Quarta Sponda libica l’imperialismo italiano arranca: non solo il governo del suo protetto al Sarraj è sotto assedio militare del generale Haftar, sostenuto da Francia, Egitto e Russia, con carne da macello sudanese; ora è la Turchia, cui l’Italia aveva sfilato la Libia più d’un secolo fa, a ritornarvi con le armi nel tentativo di diventare il principale patrono di Tripoli, forte anche dei legami coi Fratelli musulmani, e di un Trattato per la spartizione degli idrocarburi del Mediterraneo, che la oppone a Grecia, Israele ed Egitto. Non saremo certo noi a reclamare un ruolo imperialistico più attivo dell’Italia. L’indebolimento dell’imperialismo italiano è il terreno favorevole per una battaglia internazionalista, innanzitutto contro l’imperialismo di casa nostra.
Mentre si delinea il nuovo bipolarismo sino-americano, le medie potenze regionali in ascesa giocano un ruolo crescente. In Yemen Arabia+Emirati e Iran conducono la loro guerra per procura con decine di migliaia di morti, mentre con l’attacco al Rojava, ancora la Turchia, accompagnata qui dai russi, ha piantato gli scarponi in Siria, sulla testa dei curdi, i cui sogni di autonomia svaniscono tra il Comando americano e gli ufficiali di Assad. Alla grande emozione e giusta condanna dell’oppressore turco per la cacciata dei curdi di confine, non corrisponde purtroppo alcun moto internazionale di protesta per la cacciata dalle loro case di altre decine di migliaia di persone, in fuga dalla provincia di Idlib sotto le bombe e i missili di Assad e di Putin, alle quali Erdogan sbarra la strada al confine turco; ultime vittime di una guerra terribile che lascia la Siria con popolazione dimezzata.
I forti movimenti di protesta in Algeria, Sudan, Libano, Iraq e Iran si oppongono alla logica delle divisioni etniche e confessionali, strumentali agli interessi delle potenze regionali e imperialiste, per affermare i comuni interessi di proletari. La mancanza di una sponda di classe europea ne indebolisce il potenziale rivoluzionario, ed è a questa che i comunisti di qui devono lavorare.
La politica italiana si trova di fronte ad una situazione di endemica instabilità.
L’esperimento dell’inedito governo “sovran-populista” giallo-verde è durato solo 15 mesi, lasciando il posto ad un Conte II di impronta “europeista”. Se ciò da un lato ha permesso alla borghesia italiana di ottenere da Bruxelles “margini di trattativa” assai improbabili col Conte I, dall’altro ha scatenato ulteriormente una “guerra per bande” che mette ogni giorno sulla graticola la nuova maggioranza giallo-rosa.
La pletora di partitini dell’ultima ora (“Italia Viva” di Renzi, “Azione” di Calenda, entrambi provenienti dal PD; “Cambiamo!” di Toti proveniente da Forza Italia; per non parlare dei “travasi” grillini di un “Movimento” in libera uscita) alimenta ancora di più la litigiosità parlamentare. Un parlamento tra l’altro alle prese con la prospettiva di una difficoltosa riduzione dei suoi organici.
Così la Lega, diventata fulcro della “Destra-Destra” italiana, in cui FdI scavalca il declinante Berlusconi, può riprendere il ruolo che meglio le si confà: opposizione “dura” verso Roma, tenendo ben saldo il “governismo regionalista” del Nord in un quadro di accentuata “nazionalizzazione” del partito.
Cosa che, qualora sfondasse alle imminenti elezioni regionali in Emilia ed in Calabria, potrebbe ribaltare nuovamente la situazione a livello di Esecutivo. Rendendo ancora di più caotica la gestione di una situazione che deve sempre di più fare i conti con mutamenti internazionali repentini, in un quadro economico del capitale estremamente dinamico.
Ciò sarebbe fattore di ulteriore indebolimento dell’imperialismo italiano.
La Legge di Bilancio che è stata partorita rispecchia dunque un governo che sta permanentemente sul filo del rasoio. Essa infatti, una volta bloccato l’aumento dell’IVA, prevede misure che sono il risultato degli stucchevoli tira e molla su tutta una serie di questioni che non vengono mai affrontate di petto, nonostante i “roboanti” propositi (ambientalismo per la plastic tax, salute per la sugar tax…). Per i lavoratori solo una misera elemosina a luglio sul cuneo fiscale ma continueranno a pagare il 23/27/38% di tasse, contro il 15% della piccola e media borghesia con partita IVA, mentre le decontribuzioni e le agevolazioni per le imprese continuano come negli anni precedenti. Ovviamente nessuna misura contro la precarietà del lavoro, e neppure nessun intendimento di abolire i vergognosi “Decreti Sicurezza” di Salvini.
Tutti buoni a declamare, a stracciarsi le vesti in merito alla “rimonta” da fare verso gli “esclusi” e i “diseredati” (in primis il PD), ma poi guai a turbare il sonno dei padroni.
Nessuna meraviglia. Questo è il capitalismo, bellezza. Che non può essere piegato da nessuna ipocrita “cultura” dell’“onestà” e della “bontà”, ma solo dalla lotta organizzata degli sfruttati.
Nel più assoluto silenzio, la “competente” ministra dell’Interno Luciana Lamorgese sta “sistemando” al meglio quei migranti che Salvini usava più che altro come campagna elettorale permanente:
ricollocazioni, riduzione degli sbarchi, cacciata dagli (ex) SPRAR. Anche questa è “democrazia”, bellezza. Magari espletata nei luoghi preposti al governo del “bene pubblico”, come appunto recita la Costituzione. Non sulle spiagge col mojito in mano e tanti spot pubblicitari. Dunque le “sardine”, per dire, dovrebbero essere soddisfatte di ciò. Noi per niente.
Anche perché stando sui temi cogenti dei lavoratori, vengono al pettine i grandi “nodi” strategici corrispondenti all’ex ILVA di Taranto (con ripercussioni inevitabili negli altri siti), all’ALITALIA ed alla FCA.
La Arcelor-Mittal, col suo “disimpegno” dall’accordo del settembre 2018, sta facendo una operazione di mercato scaricandone “naturalmente” i costi sui lavoratori. Al di là degli aspetti “legali” della vicenda che poco ci interessano, al di là della querelle “governo italiano”/multinazionale franco-indiana, il problema di fondo è capire che, nazionalizzata o meno che sia la fabbrica, rimane l’esigenza di produrre un acciaio “in proprio” per la borghesia industriale. E questo lo si intende fare, bene che vada, con una forza lavoro più che dimezzata, esposta ai rischi produttivi ed ai veleni ambientali, che dalla fabbrica continuerebbero a diffondersi tra la cittadinanza. Alimentando lo scontro lavoro-salute, e dunque speculandoci adeguatamente per trarre profitto. Urge più che mai che i proletari prendano in mano la propria vita ed il proprio futuro, facendola diventare una “questione nazionale” da un punto di vista inedito: quello di classe. Esigendo con la lotta produzione, bonifica e manutenzione ambientale, che preveda occupazione aggiuntiva e salario pieno.
L’ALITALIA, stando solo ai flussi turistici che gestisce, è inserita in un mercato ancora più grosso di quello dell’acciaio. Anche in tal caso, il problema non è “Stato sì o Stato no”, oppure tifare per la cordata “migliore”, o peggio ancora drenare finanziamenti a fondo perduto ai “capitani” di turno. I quali trattano (vedi Lufthansa) per ristrutturazioni fondate su tagli pesantissimi del personale e/o sullo “spezzatino” della compagnia. I lavoratori possono internazionalizzare la lotta (vedi scioperi dei loro colleghi francesi), dirigendola contro i licenziamenti comunque mascherati (tipo CIGS a zero ore), contro lo scorporo dell’azienda ed il suo “ridimensionamento”.
La FCA si fonde con la francese PSA diventando il 4° gruppo automobilistico mondiale. La ferocissima competizione che investe tutto il settore segna una nuova tappa. Impianti obsoleti e necessità di buttarsi appieno sui motori elettrici sono i fattori di “spinta” che stanno dietro al progetto. I tagli dei tempi di lavoro e delle pause, le discriminazioni e le persecuzioni sindacali (o gli acquisti di sindacalisti) del “grande” Sergio Marchionne non basteranno a far fronte alle inevitabili “ricadute” della competitività mondiale sull’auto. Al primo temporale, anche i “fortunati” che se la sono sfangata dal 2012 ad oggi dovranno darsi appuntamento ai cancelli di Pomigliano, di Melfi e di Cassino per non essere a loro volta travolti. Noi saremo con loro. Anche per smascherare meglio quei sindacati di regime, o d’azienda che dir si voglia, i quali entrando nei CdA, hanno definitivamente fatto capire a chi rispondono e dove si abbeverano.
L’opera di cosciente divisione della classe lavoratrice condotta da questi sindacati di regime impedisce per ora la costituzione di un Fronte di Lotta in grado di mettere insieme, in una grande piattaforma rivendicativa, i vari comparti del lavoro salariato, assumendo le istanze dei giovani precari e dei disoccupati a vita.
Ma non basta. I Decreti Sicurezza non sono diretti solo contro i migranti, producendo decine di migliaia di nuovi “clandestini”, da sfruttare senza ritegno, con l’abolizione della protezione umanitaria, ma contro tutti i proletari, prevedendo pene durissime per chi non piega la testa e lotta a viso aperto. Non a caso la repressione antioperaia è già in atto con lo scioglimento di picchetti di sciopero da parte delle forse dell’ordine borghese, centinaia di licenziamenti e denunce, e decine di fogli di via e pene pecuniarie contro i lavoratori e i solidali che lottando sul serio e con coraggio, soprattutto nella logistica, indicano la strada a tutta la classe.
Alla repressione padronale e statale occorre contrapporre una attività seria e coerente, nonché politicamente fondata, di Unità di Classe, in un Fronte unico anticapitalista e internazionalista, estendendo e rafforzando le iniziative già in atto in questa direzione. ■