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N°46 Pagine Marxiste - Novembre 2018
La guerra di Trump



Spinto dall’accumulazione ineguale del capitale, il mondo sta cambiando. Ma il cambiamento di quantità nell’economia cambia la qualità dei rapporti politici e militari. 46 anni fa Nixon apriva alla Cina di Mao uscita dall’orbita sovietica; oggi Trump apre lo scontro con la Cina di Xi che, cresciuta economicamente di 30 volte in 37 anni, sfida la supremazia americana. Gli ultimi tre quarti di secolo hanno visto centinaia di guerre e decine di milioni di morti, ma sempre sul terreno dei paesi periferici, oggetto delle mire imperialiste. La Guerra Fredda tra USA e URSS non divenne mai calda perché non c’era partita tra la superpotenza americana e l’URSS, che per eccellere negli armamenti era rimasta priva di capitali con cui conquistare i mercati. Con la Cina, già prima potenza industriale e commerciale, la partita è aperta, si comincia dalle armi del commercio, si preparano quelle della distruzione. Occorre preparare la nostra classe all’internazionalismo.

La guerra dell’hi-tech

Il 30 ottobre 2018, qualche ora dopo la telefonata di Trump al presidente cinese XI Jinping, che secondo Trump era andata particolarmente bene aprendo la strada a trattative per sbloccare la guerra commerciale, il Dipartimento di Giustizia americano denunciava la società cinese Fujian Jinhua Integrated Circuits Co. (Jinhua), insieme alla Taiwanese United Microelectronics Corp. (UMC) e a tre cittadini taiwanesi per furto di segreti industriali ai danni di Micron Technology, Inc., il maggior produttore USA di chip di memoria. La vicenda vale la pena di essere evidenziata perché riguarda il fulcro dello scontro strategico USA-Cina sul piano industriale, e ci permette di meglio comprendere le poste in gioco e il carattere del conflitto.

Il governo cinese ha varato un piano gigantesco, di investimenti per 150 miliardi di dollari in dieci anni, per rendere la Cina indipendente nel campo dei componenti elettronici. Attualmente la Cina è tra i maggiori esportatori di prodotti elettronici (ad es. ha raggiunto la metà dell’export mondiale di smartphone), ma quasi il 90% dei componenti elettronici impiegati è prodotto su licenza di società estere o importato. Questo significa che sul piano economico le imprese cinesi si appropriano di una piccola parte del valore del prodotto, e su quello strategico sono vulnerabili a eventuali sanzioni.

Il gruppo Jinhua, costituito nel 2015 con un capitale di 5,7 miliardi di dollari, fa parte di questo sforzo per raggiungere l’indipendenza nelle memorie DRAM, di cui la Cina assorbe un quinto della produzione mondiale. È da quasi un anno che è avviata una causa legale della Micron contro Jinhua, sostenuta dal Dipartimento del Commercio USA, e la contro-causa di Jinhua contro Micron, spalleggiata dall’incursione di ispettori cinesi nelle sedi cinesi di Micron, tesi a dimostrare pratiche monopolistiche che hanno fatto raddoppiare i prezzi dei chip di memoria in due anni.

Imprese e apparati dello Stato, sia americani che cinesi, sono strettamente legati tra loro, e stanno conducendo una battaglia la cui posta in gioco è la conservazione della posizione dominante dei gruppi USA, insieme a quelli giapponesi e coreani, e l’arresto dell’ascesa della Cina in questo settore strategico anche per l’industria militare. Conflitti analoghi sono in corso in diversi altri settori. Secondo l’FBI, la Cina compare nelle indagini sullo spionaggio industriale in tutti i 56 uffici settoriali dell’agenzia. Lo spionaggio industriale, anche attraverso l’ingaggio di scienziati e tecnici dei concorrenti, è una pratica comune nel mondo capitalista, anche se il trasferimento delle tecnologie avviene perlopiù attraverso meccanismi di mercato: tramite l’acquisto di brevetti, mediante joint venture, mediante l’acquisto di società che hanno sviluppato determinate tecnologie.

Gli Stati Uniti intendono bloccare anche questi canali di mercato con leggi e regolamenti che sottopongono all’autorizzazione di autorità americane l’acquisto di quote superiori al 15% in settori strategici (anche la Germania ha preso misure analoghe), e con le tariffe commerciali punitive chiedono che la Cina rinunci a pretendere il trasferimento delle tecnologie alle imprese che vogliono produrre in Cina. Il “libero mercato”, con la “mano invisibile” di Adam Smith che regola l’economia in maniera ottimale, oltre ad essere un’ideologia falsa, perché il libero mercato produce inevitabilmente crisi e distruzione, è un’astrazione che non esiste allo stato puro nella realtà, perché è continuamente forzata dalle posizioni monopolistiche e dall’intervento degli Stati.

D’altra parte, dato il potenziale scientifico della Cina, tutte le misure protezionistiche e le sanzioni che gli USA possono imporre possono solo frenare, non impedire l’ascesa della Cina nelle tecnologie di punta, sostenuta da tutto l’apparato statale. In una società senza classi le scoperte scientifiche e tecnologiche saranno patrimonio collettivo dell’umanità, e non proprietà esclusiva dell’impresa alle cui dipendenze è stata fatta la scoperta. Questo sistema impedisce la rapida diffusione delle scoperte e frena il progresso. Nel capitalismo la “proprietà intellettuale” serve non solo a garantire sovrapprofitti, ma anche a mantenere posizioni dominanti. Le quali tuttavia saranno prima o poi scalzate dallo sviluppo ineguale del capitalismo.

Nel 2016 in Cina si sono laureati 4,7 milioni di studenti “STEM” (Scienze, Tecnologia, Ingegneria, Matematica), contro 568 mila negli USA (2,6 milioni in India, 561 mila in Russia e ben 335 mila in Iran). Le stesse grandi multinazionali sono interessate ad attingere all’enorme pool cinese di cervelli, per cui anche quelle americane come Microsoft, Intel, Qualcomm, Procter&Gamble, General Electric hanno aperto centri di ricerca e sviluppo in Cina, che contribuiscono allo sviluppo tecnologico cinese, così come le multinazionali cinesi costituiscono centri di ricerca ad es. in Europa, attingendo agli sviluppi scientifici del Continente. È solo questione di tempo.

Ma proprio questa ineluttabilità dell’ascesa tecnologica cinese, con tutte le implicazioni militari, pone come inevitabile il confronto politico e militare con la superpotenza americana.


La “guerra dei dazi” lanciata da Donald Trump è molto più che una guerra commerciale; è una guerra per riaffermare il predominio mondiale dell’imperialismo americano, condotta (per ora) principalmente con le armi del commercio. Abbandonando i dogmi del liberoscambismo, Trump aggiunge all’arsenale già collaudato delle sanzioni (contro la Corea del Nord, l’Iran, la Russia, ma ora anche contro militari cinesi) quelle tipiche del protezionismo, come i dazi commerciali, per raggiungere obiettivi politici ed economici al tempo stesso. Ha iniziato con dazi del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio importati, ha fatto seguito la minaccia di dazi del 25% su auto e componenti auto importati, infine la raffica di dazi del 25% e del 10% contro centinaia di miliardi di importazioni cinesi.
Se si trattasse di obiettivi puramente economici, la battaglia protezionista di Trump, in una fase di espansione, sarebbe perdente. Gli Stati Uniti, se si rinchiudessero nel proprio mercato interno si taglierebbero fuori dal mercato mondiale e perderebbero in competitività, accelerando, anziché rallentare o invertire, il proprio declino. Ma, anche se le esternazioni di Trump sembrano alle volte dei vaneggiamenti, c’è del metodo in quella apparente follia. Trump non ha virato verso il protezionismo su tutta la linea. L’Amministrazione sta calibrando e differenziando il “trattamento” dei vari interlocutori, sulla base degli interessi strategici americani. Con la Corea del Sud, del cui supporto ha bisogno nel confronto con Cina-Corea del Nord, ha raggiunto rapidamente un accordo commerciale che evita i dazi sulle auto (24 miliardi di esportazioni in USA nel 2017).
Dopo le bordate contro il Messico e la promessa di fargli pagare la costruzione della Grande Muraglia anti-immigrati, e gli scambi al vetriolo con il primo ministro canadese Justin Trudeau, Trump ha disdetto l’accordo di libero scambio nordamericano NAFTA, giungendo dopo breve a un nuovo accordo commerciale con il Messico, e poi con il Canada. Con questo nuovo NAFTA (chiamato USMCA) Trump ottiene un maggiore accesso al mercato canadese dei latticini (nel limite del 3,6% anziché 3,25%) per gli agricoltori americani, e viene confermata l’assenza di dazi per auto e loro componenti con almeno il 75% di contenuto nordamericano (era il 62,5% nel NAFTA). Ciò significherà minori importazioni da Europa e Asia. Per ottenere il favore dell’UAW, il sindacato dell’auto di USA e Canada, è stata introdotta la condizione che dal 2020 almeno il 30% del valore sia creato da lavoratori pagati più di 16 dollari l’ora, e il 40% dal 2023. Nell’accordo è stata inoltre introdotta una clausola che praticamente vieta a Canada e Messico di concludere accordi di libero scambio con la Cina (con “paesi non a economia di mercato”, è la foglia di fico), pena la decadenza dell’USMCA, e questo proprio quando la Cina stava trattando per raggiungere un tale accordo con il Canada. Con l’USMCA quindi gli Stati Uniti chiudono Canada e Messico dentro la gabbia della propria sfera di influenza, limitando la loro sovranità sul piano commerciale, ed impedendo alla Cina di trattare separatamente con i due paesi del Nordamerica (lo stesso vale per i paesi della UE, che hanno ceduto all’Unione – ma non a un singolo Stato – la sovranità sul commercio estero).

PROTEZIONISMO STRUMENTALE
Se nel caso di Messico e Canada le dichiarazioni di guerra commerciale avevano lo scopo di modificare l’accordo NAFTA a favore degli USA, per l’acciaio e l’alluminio le tariffe annunciate hanno motivazioni strategiche, sulla scorta di una legge del 1962 (la Sezione 232 del Trade Expansion Act, che dà al Presidente la facoltà di introdurre tariffe doganali per far fronte a una minaccia alla sicurezza nazionale). Gli USA vogliono essere autosufficienti nella produzione di acciaio e alluminio, metalli fondamentali per l’industria degli armamenti e aeronautica. Trump ha minacciato di fare ricorso alla stessa norma anche per i dazi sulle auto europee e giapponesi. In questo modo escluderebbe il Congresso dalla decisione, tagliando fuori anche le lobby ostili. La pistola puntata sulle auto d’Europa e Giappone può anche essere vista come arma di pressione su questi “alleati” perché appoggino la guerra commerciale contro la Cina.
Su questa guerra gli schieramenti internazionali sono ancora mobili. Sul piano ideologico abbiamo un Trump che rigetta liberismo e multilateralismo, difesi invece da Cina, Europa (Gran Bretagna inclusa) e Giappone. Ma ciò non significa che Europa e Giappone appoggeranno la Cina contro gli Stati Uniti.
Il protezionismo di Trump non è ideologico, né una scelta strategica per l’economia USA, ma strumentale. Anche i paralleli con gli anni Trenta del ‘900 non servono a capire la guerra in corso. Vi sono diversità di fondo tra il protezionismo degli anni ’30 e l’attuale guerra commerciale di Trump. Negli USA, come in generale nei paesi che stavano sviluppando una propria industria nazionale, prevalse dalla fine della guerra civile (1865) una linea protezionista, di cui si fece interprete il partito Repubblicano, che mantenne il potere fino al 1911, quando venne eletto il presidente Woodrow Wilson, con un Congresso pure democratico, il quale ridusse le tariffe commerciali, che raggiunsero il loro minimo negli anni della Prima Guerra Mondiale, quando gli USA divennero i fornitori di armi e vettovagliamenti agli alleati. Nel 1918 il 75% dell’export negli USA era esente da dazi e il restante 25% era tassato con una tariffa media inferiore al 25%. Nel 1922 i Repubblicani ritornati al potere elevarono di nuovo le tariffe, ma su livelli inferiori a quelli di anteguerra.
Lo Smoot-Hawley Tariff Act del 1930, che aumentò i dazi doganali su una serie di prodotti, fu il risultato della pressione di lobby protezioniste (associazioni di agricoltori degli stati confinanti con il Canada e di industriali dell’industria leggera di qualità che subivano la concorrenza dei prodotti europei), accentuatesi sotto gli effetti della pesante recessione seguita al crollo di Wall Street e delle banche europee. Il presidente Hoover cedette a quelle pressioni, e alzò le tariffe sui prodotti dei settori che chiedevano protezione, ma non impose tariffe protettive sui settori liberisti, vincenti nell’export (acciaio, automobile e meccanica, l’agricoltura del Sud). Quindi fu un protezionismo selettivo per settori. Nel 1932 due terzi delle importazioni (crollate) erano esenti da dazi; sul terzo rimanente le tariffe doganali pesavano mediamente per il 59% del valore del prodotto importato (contro il 40% nel 1929). Questa politica, che colpì le esportazioni dei paesi europei, è stata accusata di avere privato i paesi europei dei mezzi finanziari per pagare i debiti agli USA, accentuando la crisi finanziaria e scatenando gli eventi che condussero alla Seconda Guerra Mondiale.
Anche in Germania già negli anni ’20 era prevalso il protezionismo sulla spinta degli agrari della Prussia (Junker), danneggiati dalla caduta dei prezzi internazionali dei cereali, insieme all’industria pesante, che puntava alla formazione di trust monopolistici protetti dalla concorrenza internazionale. Questi due gruppi di interessi avevano stretti legami con il governo, e per questo prevalsero rispetto ai piccoli agricoltori occidentali e bavaresi (latticini e carne) per i quali i cereali erano una materia prima, e gli industriali dell’industria meccanica, per i quali l’acciaio era il materiale di base. L’attuale guerra commerciale di Trump viene invece scatenata per iniziativa del presidente americano, non sulla spinta di lobby protezioniste, e in una fase di espansione economica che sta già portando al pieno utilizzo della capacità produttiva. Durante l’estate ben 107 associazioni imprenditoriali (dalle grandi catene commerciali agli agricoltori al settore dell’elettronica) si sono schierate pubblicamente contro le tariffe sulle importazioni dalla Cina, con una lettera al Congresso.
Anche i grandi gruppi automobilistici americani (GM e Ford, più la bifronte Chrysler, cui si aggiungono Tesla e altre nuove società per l’auto elettrica) sono contrari ai dazi, perché si sono fortemente internazionalizzati, anche per l’approvvigionamento dei componenti montati negli USA, mentre i concorrenti tedeschi e giapponesi sono già ampiamente presenti con fabbriche in territorio USA, al riparo dalle barriere doganali. È tuttavia un successo di Trump avere ottenuto il sostegno dei sindacati, non solo di quello della siderurgia, ma anche della UAW e della confederazione AFL-CIO, tradizionalmente pro-democratici, che hanno dichiarato di essere favorevoli a una protezione dell’industria auto USA, anche se con la specificazione che i dazi devono essere “mirati” e non a 360°. È un esempio di come la classe operaia, se si limita all’ambito corporativo aziendale e non viene educata, attraverso la lotta, alla difesa degli interessi generali della classe compresa la solidarietà internazionale, può facilmente essere condotta sul terreno del nazionalismo. Là “America first”, qua “prima gli italiani”: il populismo inietta il veleno nazionalista nella classe operaia illudendo i lavoratori che il loro benessere sia legato all’azienda e alla nazione, e sia contrapposto a quello dei lavoratori degli altri paesi. Così le multinazionali dell’auto come quelle degli altri settori possono giocare i lavoratori di un paese contro quelli di un altro paese chiedendo sempre più sconti e sacrifici, così giovani operai Chrysler hanno salari pari alla metà degli anziani.
La scelta di Trump non va però interpretata come la risultante delle pressioni di interessi particolari, settoriali, ma va vista come tentativo di sintetizzare un “interesse generale” dell’imperialismo americano, che si impone sugli interessi particolari. L’Amministrazione si basa su analisi e rapporti che lanciano l’allarme sul rafforzamento industriale, tecnologico e militare della Cina, che utilizzerebbe le regole del WTO per entrare nei mercati altrui, mentre condiziona l’accesso al proprio mercato alla cessione di tecnologie avanzate. Il Rapporto “301” dell’Ufficio del Rappresentante al Commercio al Presidente, dedica alla Cina 9 pagine (contro 1-2 pagine per gli altri paesi) sulle minacce e violazioni in tema di proprietà intellettuale: dalla insufficiente protezione dei brevetti alle vendite, soprattutto online, di prodotti contraffatti, alla pretesa delle autorità statali di conoscere codici per decriptare le comunicazioni sulle varie piattaforme, mentre non blocca siti che favoriscono la pirateria sui copyright, la pretesa di cessione di tecnologie avanzate quale condizione per l’accesso delle imprese al mercato cinese, anche mediante l’obbligo di entrare in joint venture con società cinesi cui spetta la quota di maggioranza, di imporre la cessione di brevetti a prezzi inferiori a quelli di mercato, di promuovere e facilitare con denaro pubblico l’acquisizione di società USA detentrici di tecnologie di punta da trasferire ad imprese cinesi, intrusioni nelle reti informatiche delle aziende americane per carpirne segreti commerciali… Non importa se molte di queste sono azioni praticate da tutti gli Stati, dai loro servizi, delle loro imprese, in maniera aperta o surrettizia. L’imperialismo americano con Trump intende usare tutti i mezzi a disposizione per bloccare/controllare il trasferimento di tecnologie alla Cina. Significativo è lo scontro sulle tecnologie per le memorie DRAM, presenti nei pc e in molti apparecchi elettronici. Qui una battaglia legale tra imprese USA e cinesi è stata raccolta dal Procuratore Generale degli USA, divenendo scontro tra i due stati (vedi riquadro).

L’ASCESA ECONOMICA DELLA CINA
Al di là del rispetto della “legalità internazionale” come definita tra capitalisti e tra i loro governi (tra le proprietà intellettuali da difendere è ad es. anche quella che garantisce il monopolio dei farmaci, impedendo il loro uso nei paesi a basso reddito e ai poveri in generale), il problema vero con la Cina è che la sua ascesa è vista come una minaccia al predominio USA. È una minaccia non solo sul piano economico (ha superato gli USA come produzione industriale ed export, e per Prodotto Interno Lordo (PIL) se misurato a parità di potere d’acquisto, non ancora ai prezzi di mercato), ma anche su quello strategico (con la Belt and Road Initiative – la Nuova Via della Seta – e con la Shanghai Cooperation Organisation – SCO – e la AIIB - Asian Infrastructure Investment Bank) sta tessendo una rete di rapporti e influenze internazionali che rivaleggia con le reti che gli USA hanno steso da decenni. Sul piano militare le distanze sono ancora enormi, in quantità e qualità, ma la Cina sta incrementando la spesa militare con forti ritmi di crescita e sponsorizza l’integrazione tra imprese civili e militari, per accelerare le ricadute tecnologiche dal civile al militare e viceversa, come avviene in tutti i paesi capitalisti.
I grafici e le tabelle che seguono mostrano l’entità e la rapidità dell’ascesa della Cina, che è aumentata di quasi 30 volte in 37 anni. Questi ritmi non potranno essere mantenuti ancora a lungo, ma per il momento la Cina sta ancora investendo il 44% del suo PIL contro meno del 20% per le metropoli USA ed europee, con un impetuoso processo di accumulazione capitalistica, che sposterà ancora a suo favore i rapporti di forze, ma anche verso inevitabili crisi di sovrapproduzione. Si noti che tra tutti i paesi in tabella l’Italia è l’unica a segnare un calo nell’ultimo decennio:
mentre negli anni ’80 l’Italia era in competizione con Francia e Gran Bretagna per il secondo posto in Europa, ora il suo PIL è molto inferiore (Tab. 2), anche se nella produzione industriale regge ancora il confronto (Tab. 3).
I raffronti tra le varie economie si possono fare sia al cambio corrente, che a parità di potere d’acquisto (PPA). Al cambio corrente appaiono più ricchi e forti i paesi i cui prezzi interni sono più alti. A parità di potere d’acquisto si confrontano le quantità di beni e servizi realmente prodotti. Nei paesi ricchi i prezzi dei servizi, dalla tazzina di caffè al biglietto dell’autobus sono molto più alti, quindi questi paesi risultano avere un PIL a cambio corrente maggiore anche quando producono meno. In generale possiamo dire che i confronti ai prezzi (e cambi) correnti valgono quando si parla di denaro e capitali, quando si vuole confrontare la forza finanziaria, mentre i confronti a PPA valgono per confrontare la produzione reale, fisica, e il tenore di vita nei diversi paesi.
Dai dati e grafici riportati si può notare che ai prezzi correnti gli USA sono ancora di gran lunga la prima potenza mondiale, e il loro declino è stato minimo o inesistente (la quota di Prodotto Lordo mondiale è del 26%, addirittura superiore a quella del 1980, ma qui incide anche il basso valore del dollaro in quell’anno). È molto più accentuato il declino delle potenze europee; non solo il crollo dell’URSS-Russia, ma anche il declino delle maggiori potenze europee occidentali. La somma dei PIL di Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia era pari al 21-22% del totale mondiale fino al 1990, ancora nel 2007 era vicina al 18%, ma dieci anni dopo è crollata al 12,4%, dato che dopo la crisi del 2008-9 l’Europa ha ristagnato mentre l’Asia era in espansione.
La Cina, che insieme all’India è stata il motore dell’espansione asiatica, è passata da meno del 2% ancora nel 1990 al 15,6% della produzione mondiale, con 10 punti di distacco dagli USA.
Nel calcolo a PPA (ossia contando non il prezzo, ma il numero dei viaggi in autobus e treno, il numero di tagli di capelli, il numero di telefonate, ecc.) vi è invece già stato un netto sorpasso della Cina sugli Stati Uniti (18,2% del PL mondiale contro 15,3%), all’interno di un generale sorpasso dei “paesi emergenti e in sviluppo” rispetto a quelli avanzati (Fig. 3). Se confrontiamo inoltre le Tab. 2 e 3 e le Fig. 1 e 2 notiamo che il settore industriale accentua, diremmo traina, l’enorme spostamento del baricentro mondiale verso l’Asia. Sempre a prezzi correnti il PIL dell’Asia passa dal 15% del mondo nel 1970 al 37,4% nel 2016, superando sia Europa che Americhe. Ma nell’industria l’Asia ha raggiunto la metà della produzione mondiale, con la Cina che ha da sola più del 25%, contro il 18% degli USA e circa altrettanto della UE senza la Gran Bretagna.
Occorre inoltre considerare che il “valore aggiunto” industriale delle metropoli contiene una quota rilevante di prezzi monopolistici. Nella catena del valore delle multinazionali con forte marchio (si pensi a Apple, Microsoft, Coca Cola, Siemens, Samsung, Sony, Toyota, ecc.) anche se gran parte del lavoro è contenuto nei componenti prodotti da fornitori esteri a basso costo, una quota importante del valore finale è accaparrata dalla multinazionale che possiede brevetti, marchio e rete commerciale mondiale.

RENDITE MONOPOLISTICHE E DOMINIO MONDIALE
Nella misura in cui anche paesi come Giappone prima, poi Corea e ora Cina (forte del suo enorme mercato interno) affermano internazionalmente i propri marchi (Huawei, Asus, Haier, ecc.) essi non azzerano le rendite monopolistiche, ma ne accaparrano delle quote, erodendo il predominio delle vecchie metropoli. Aveva fatto scalpore la ripartizione del valore dell’iPhone assemblato in Cina secondo uno studio del 2011: mentre ai salari dei lavoratori cinesi andava l’1,8%, e il 3,5% ai lavoratori coreani e di altri paesi, Apple si accaparrava come profitti il 58,5% del valore grazie al possesso delle tecnologie e marchio. Tuttavia non esiste monopolio assoluto e stabile: Samsung con i modelli Galaxy è in lotta con Apple per la ripartizione dei profitti monopolistici (e in combutta per tenere alti i prezzi), e oggi le cinesi Huawei, Xiaomi e OPPO hanno conquistato oltre un terzo del mercato mondiale degli smartphone, insidiando i due gruppi leader della fascia alta.
Qui c’è l’aspetto economico dello scontro in atto, ossia la spartizione del plusvalore mondiale, la spartizione dei frutti dello sfruttamento del proletariato mondiale tra le grandi imprese oligopolistiche. Esso è il contenuto economico essenziale di uno scontro che tuttavia non può essere ridotto, o ricondotto alla sola economia. In parallelo all’ascesa economica, la Cina sta portando avanti un grande rafforzamento e modernizzazione militare, insieme all’espansione militare nel Mar Cinese Meridionale, strategico e vitale per le rotte commerciali cinesi, e che si dice ricco di idrocarburi. I cinesi vi hanno installato basi militari in acque contese da Giappone, Taiwan, Filippine, Vietnam. Gli Stati Uniti stanno intensificando il transito di loro navi militari in questo mare, lanciando una sfida alla flotta e all’aviazione cinese, una sfida che potrà andare oltre la dimensione psicologica. La visita del premier nazionalista giapponese Shinzo Abe a Pechino del 26 ottobre segna il tentativo di raggiungere un compromesso con la Cina sull’area contesa, approfittando della pressione USA, e rafforzare i legami economici, contrastando le misure protezioniste americane. Segnali di disponibilità sono contemporaneamente lanciati dalla Cina alle Filippine, per non farle ricadere nell’abbraccio americano.
La disdetta di Trump dell’accordo USA-URSS del 1987 sui missili a medio raggio è un’altra mossa per contenere la Cina: sia per non lasciarle il quasi-monopolio nella proliferazione di questi missili, sia per accerchiare la Cina con missili a medio raggio.
La partita tra la potenza sfidante cinese e quella dominante americana è quindi una partita a 360 gradi, che investe tutto lo scacchiere mondiale, che durerà decenni e si gioca con tutte le armi; non va escluso l’uso di quelle militari, anche se per le prime grosse bordate sono state usate quelle commerciali, delle tariffe e delle sanzioni.
Diversamente dal protezionismo degli anni Trenta, la guerra commerciale di Trump non ha quindi finalità difensive del mercato interno, ma offensive allo scopo di arrestare, frenare o condizionare l’ascesa cinese e frenare o possibilmente invertire il declino relativo della potenza americana.
Gli obiettivi strategici che l’Amministrazione si propone con i dazi sono:
Rafforzare l’industria USA in una serie di settori, come l’auto e l’elettronica, oltre alla metallurgia, che hanno importanza strategica sia economica che militare.
Indebolire la posizione della Cina come fabbrica del mondo. Se i prodotti cinesi costano di più, se dalla Cina non conviene esportare negli USA, i gruppi che vendono negli USA andranno a produrre altrove o cercheranno altri fornitori. Costringere la Cina a rinunciare a pretendere il trasferimento di tecnologie in cambio dell’accesso all’enorme mercato. L’obiettivo strategico, al quale sono funzionali questi tre obiettivi, è frenare l’ascesa tecnologica e militare della Cina, unica potenza in grado di sfidare il dominio americano in un prossimo futuro (l’India, seconda e fra 20 anni prima potenza demografica, avrà bisogno di qualche decennio in più).
Questi obiettivi non mancano di contraddizioni. Con le catene di approvvigionamento globali, i dazi sui prodotti cinesi non vanno a colpire solo le produzioni cinesi. Molti prodotti elettronici assemblati in Cina contengono componenti prodotti altrove, in altri paesi asiatici ma anche negli Stati Uniti (es. i processori nei pc). Vanno quindi a colpire i fornitori sparsi nel mondo. Non solo: molti prodotti cinesi colpiti dai dazi del 25% sono prodotti intermedi forniti a imprese americane, che difficilmente possono trovare fornitori alternativi competitivi per qualità e prezzo. In questo modo sono danneggiate le imprese americane acquirenti, che perdono di competitività (soprattutto se esportano a loro volta il prodotto finito). Inoltre, se gli USA arriveranno a colpire con tariffe anche i prodotti cinesi di largo consumo che riempiono gli scaffali dei grandi magazzini americani, aumenterà il costo della vita negli Stati Uniti e i lavoratori perderanno potere d’acquisto: vi saranno spinte al recupero salariale e all’aumento del costo del lavoro.
Questa dinamica è già in atto per l’acciaio, il cui prezzo negli USA è aumentato del 30% grazie soprattutto ai dazi del 25%, facendo lievitare enormemente i profitti delle società siderurgiche (in particolare US Steel e … Arcelor Mittal), i cui dipendenti, dopo anni di rinunce salariali, chiedono consistenti aumenti salariali. L’aumento del prezzo dell’acciaio è però un forte aumento dei costi per gli utilizzatori dell’acciaio (industria meccanica, auto, elettrodomestici), molto più numerosi dei siderurgici, che perdono competitività verso i concorrenti esteri che potranno quindi invadere il mercato americano.
Infine i dazi di ritorsione cinesi, imposti su quantità analoghe di prodotti americani, soprattutto agricoli, scelti per colpire la base elettorale di Trump negli stati oscillanti, spostano la domanda della Cina dagli USA a paesi come il Brasile, e fanno cadere i prezzi di prodotti americani come la soia, danneggiando gli agricoltori. Trump ha parato il contraccolpo elettorale stanziando 11 miliardi di dollari per sussidi agli agricoltori danneggiati, perché confermassero il voto ai repubblicani nelle elezioni midterm.
Se da un punto di vista degli interessi economici immediati i dazi danneggiano anziché favorire la maggioranza dei gruppi economici americani, molti dei quali sono entrati in simbiosi con i gruppi cinesi quali fornitori, e con il mercato cinese quale mercato di sbocco, molti di questi stessi gruppi vedono il vantaggio strategico di ridurre la dipendenza dalla Cina e di impedire il trasferimento di tecnologie americane ai gruppi cinesi, prima che diventino temibili concorrenti sul mercato mondiale.
Per questo motivo i grandi gruppi USA, mentre fanno lobby per contenere i danni, non stanno conducendo una campagna di opposizione politica alla linea Trump, che si sta affermando come linea strategica dell’imperialismo americano. La forza militare rimane lo strumento di ultima istanza, nel quale gli USA devono conservare la superiorità assoluta rispetto a qualsiasi potenziale coalizione avversaria, ma ha mostrato i suoi limiti in Afghanistan e Iraq, come prima in Vietnam. La linea Trump prevede un uso differenziato delle armi commerciali, con diversi dosaggi e tattiche. Nei confronti di paesi che sono o possono essere attirati nella sfera di influenza USA, una tattica simile a quella adottata verso Messico e Canada, analoga alla sua tattica negoziale seguita negli affari: una rottura drastica, per mettere la controparte in una posizione difensiva e di incertezza, seguita da una rinegoziazione a condizioni più favorevoli per gli USA, che possono far leva sia sulle dimensioni e l’attrattività del proprio mercato interno, sia sul proprio peso finanziario e dominio monetario. Nei confronti dell’Europa il gioco americano è più complesso, perché da un lato Trump mira, più apertamente dei suoi predecessori, a disgregarla puntando sul “sovranismo” populista, per impedire che arrivi a formare un blocco politico e militare che potrebbe assumere una posizione autonoma giocando Cina e Russia contro gli USA.
La Brexit, se sarà portata a termine, è un grande successo in questa strategia, e l’Italia di Lega-5Stelle potrebbe ora giocare lo stesso ruolo di guastafeste in Europa; ma al tempo stesso gli USA devono evitare la totale disgregazione della UE, che porterebbe la Germania a procedere ancora da sola, questa volta con potenziali alleati ben più potenti dell’Impero Ottomano nella Prima Guerra Mondiale e del Giappone nella Seconda. Per questo hanno minacciato sanzioni nel caso venga realizzato il previsto raddoppio del gasdotto North Stream, che già porta 55 miliardi di metri cubi/anno di gas russo alla Germania direttamente, attraversando il Mar Baltico (senza passare per l’Ucraina o la Polonia). Questo legherebbe ancor più strettamente la Germania, che già dipende dal gas russo per oltre metà delle forniture, alla Russia. La minaccia di sanzioni (anche contro l’ “alleata” Germania), unita alla minaccia dei dazi sulle auto, che colpirebbero soprattutto la Germania (solo nella produzione diretta di auto occupa circa 850 mila lavoratori), ha dato un primo risultato: il consenso di Merkel all’acquisto di gas liquefatto americano, anche se più caro dati i costi di trasporto e rigassificazione, e l’accordo UE-USA con l’impegno UE a costruire impianti di rigassificazione (sottinteso: per il gas liquido importato dagli USA, divenuti esportatori netti grazie alle nuove tecniche di estrazione), in cambio della sospensione del dazio del 25% sulle auto europee.
Nei confronti della Russia, gli USA vogliono tenere viva la tensione con l’Europa Orientale, per mantenere l’influenza militare come “protettori” di Polonia e Ucraina e Baltici contro le mire russe (e tedesche). Dato che i dazi doganali avrebbero scarso effetto nei confronti della Russia, che esporta molto poco negli USA, già Obama aveva imposto sanzioni, che oltre a colpire la Russia danneggiano anche i suoi partner commerciali europei (tra cui l’Italia).
Anche contro l’Iran Trump ha lanciato pesanti sanzioni dopo aver rotto unilateralmente l’accordo sul nucleare, nel tentativo di spezzare i rapporti tra l’Iran e le potenze europee e asiatiche. La minaccia di impedire di fare affari negli USA alle imprese che investono in Iran ha già indotto le maggiori imprese francesi, tedesche e italiane a stracciare gli accordi per investimenti in Iran. Le sanzioni contro Russia e Iran sono quindi di fatto anche dirette a indebolire la penetrazione economica e militare degli imperialismi europei in queste aree, anche se il loro dosaggio prevede esenzioni (nel caso dell’Iran) per contenere la crescita delle correnti antiamericane. È da notare l’uso unilaterale delle sanzioni da parte degli USA, senza più la foglia di fico dell’ONU, basate esclusivamente sulla forza, economica, finanziaria e militare dell’imperialismo americano.
Con la Cina, come abbiamo visto, la posta in gioco è il dominio mondiale, e la guerra dei dazi si pone non solo l’obiettivo di danneggiare le esportazioni cinesi verso gli USA, ma di rimodellare le catene globali di fornitura, riducendo la dipendenza USA dalle forniture cinesi, soprattutto nell’elettronica (che sarebbe esiziale in caso di guerra), e al tempo stesso quello frenare la sua ascesa, soprattutto nei settori di punta. Se la Cina continuasse a crescere del 6,5% l’anno, il suo prodotto raddoppierebbe in 11 anni. È altamente improbabile che possa tenere questo ritmo perché le riserve di forza lavoro dalle campagne si stanno esaurendo, e perché, diversamente dal 2009, difficilmente la Cina potrà evitare di essere investita dalla prossima crisi capitalistica internazionale. Resta però il fatto che il potenziale demografico cinese, la scala della sua accumulazione e concentrazione di capitali che già ne fanno la prima potenza industriale ed esportatrice mondiale e ne faranno a breve anche il primo mercato del mondo, determinano inevitabilmente una crescente proiezione commerciale e finanziaria globale, e per difendere questa proiezione la Cina dedicherà sforzi crescenti alla costruzione di un apparato militare in grado di reggere il confronto con gli Stati Uniti.
La domanda che si pone non è quindi quale composizione troverà la guerra commerciale USA/Cina, ma se gli Stati Uniti useranno le armi della distruzione prima che si chiuda l’arco temporale della sua superiorità assoluta sui due oceani contemporaneamente. Il parallelo con l’ascesa economica della Germania, che portò alla Prima (e alla Seconda) Guerra Mondiale, vale solo in parte, perché l’imperialismo tedesco doveva farsi strada con le armi per modificare una spartizione rigida del mondo già avvenuta tra gli imperialismi concorrenti. Nell’epoca della globalizzazione liberista il giovane imperialismo cinese non ha bisogno di usare le armi per conquistare i mercati per le sue merci e i suoi capitali, come dimostra la sua penetrazione in Asia, Africa e America Latina. È l’imperialismo dominante che può sentire per primo la necessità di usare le armi per fermare il rivale, qualora dazi e sanzioni non bastino a contenerlo. Nessuna sfera di cristallo è in grado di dircelo. Ma ci basta la bussola del marxismo per conoscere la nostra strada: far crescere l’indipendenza politica della classe lavoratrice, combattere ogni forma di nazionalismo al suo interno, ridare forza all’internazionalismo proletario a partire dalla lotta contro l’imperialismo di casa nostra. È l’unico antidoto che, se non potrà evitare le nuove guerre, potrà evitare la trasformazione dei proletari in docile carne da cannone per i loro sfruttatori e ingaggiare nuovamente la battaglia rivoluzionaria per seppellire questo sistema in cui, dagli USA all’Europa alla Cina, la ricchezza per pochi è indissolubile dallo sfruttamento, dall’oppressione e dal massacro di chi la produce. ■







COSIMO MUN

Pubblicato su: 2018-12-17 (513 letture)

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