editoriale
Il clima economico e sociale mondiale vede il succedersi di crescenti turbolenze. La ripresa dopo la crisi del 2008 è stata notevolmente diversificata. Mentre Cina, India e alcuni paesi dell’Africa hanno tenuto un passo sostenuto, le metropoli si sono riprese più lentamente che dopo le crisi precedenti, anche se forse proprio per questo la fase ripresa si sta dimostrando una delle più lunghe della storia del capitalismo. L’Italia tuttavia non l’ha vista, è rimasta indietro e non è ancora risalita ai livelli produttivi del 2007, nonostante la politica monetaria ultra-espansiva della BCE, che ha acquistato centinaia di miliardi in titoli di debito pubblico mettendo sul mercato altrettanta liquidità, e tenendo i tassi di interesse vicini allo zero, come mai si era visto nella storia. Non è un caso quindi che l’Italia sia il primo grande paese europeo in cui i partiti “populisti” sono arrivati al governo. È anche il risultato del perdurare, estendersi e acuirsi del disagio sociale per disoccupazione, precarietà, abbassamento dei salari, soprattutto per le giovani generazioni, che ha screditato PD e Forza Italia. Delle loro politiche si sono realizzati solo i sacrifici (sulla flessibilità alias precarietà, sui salari che sono diminuiti, sulle pensioni). Il tunnel in fondo al quale era stata fatta balenare la luce di crescita e benessere si è rivelato senza fine, e alcuni milioni di voti si sono spostati a favore di coloro le cui promesse ancora fresche non hanno ancora potuto essere smentite dai fatti.
Ma c’è anche una seconda dimensione e determinazione della politica da parte del procedere ineguale dell’economia. La massiccia accumulazione di capitali in Cina, in un ciclo di accumulazione che dura da ben 40 anni, ha fatto di questo paese di 1,4 miliardi di persone di gran lunga la prima potenza industriale e commerciale del mondo, con la capacità di grandi esportazioni di capitali in tutti i continenti,
tale da poter minacciare in prospettiva la supremazia americana.
Questo fatto ha rafforzato negli USA le correnti che vogliono
porre termine al multilateralismo e al libero commercio, fattori
che hanno favorito l’ascesa della Cina, e usare armi economiche
come il protezionismo per scopi anche politici e militari: da un
lato per favorire il rientro negli USA di produzioni strategiche
come siderurgia, alluminio, auto, e reindustrializzare il paese,
dall’altro per colpire l’export cinese e quindi limitare la crescita
della potenza rivale. Ma soprattutto l’Amministrazione Trump
punta a impedire l’acquisizione da parte della Cina di tecnologie
di punta, in particolare quelle con applicazioni militari. È quella di
Trump una guerra condotta (per ora almeno) con altri mezzi rispetto
a quelli militari, per indebolire i rivali, non solo la Cina, ma
anche l’Europa.
Per quanto formalmente alleati degli USA, come junior partner
(soci di minoranza) nella NATO, i paesi europei hanno cercato di
unirsi sul piano commerciale e monetario per contendere il
dominio soprattutto alla superpotenza americana e ora anche
alla Cina in prepotente espansione nelle loro stesse ex-colonie
africane. L’euro ambiva a spartire col dollaro il ruolo di moneta
internazionale, e non sono mancati tentativi di formare una unità
politico-militare europea che rendesse il vecchio continente indipendente
dagli USA anche su questo piano. Gli USA hanno
visto di buon occhio un mercato comune europeo, ma hanno
sempre avversato i tentativi di unione politico-militare europea.
Per questo hanno stretto rapporti particolari con (e dislocato
truppe nei) i paesi dell’Europa Orientale, dai Paesi Baltici alla
Polonia, Ungheria e Ucraina, quali “garanti” non solo nei confronti
della Russia a Est, ma anche della Germania a Ovest.
La linea Trump tuttavia fa un salto di qualità nell’interventismo
americano in Europa, sostenendo in maniera più o meno
esplicita le forze “populiste” e “sovraniste”, ossia contrarie a una
maggiore centralizzazione politica europea, con l’obiettivo di
riattizzare le rivalità di interessi tra paesi europei, in modo da
impedire a Francia e Germania di centralizzare il grande potenziale
industriale e finanziario europeo, e permettere agli USA di
esercitare una “bilancia di potenza” dentro la stessa Europa. Il
voto pro Brexit per l’uscita della Gran Bretagna dalla UE è stata
un primo successo di questa linea, prima dell’elezione di Trump;
il varo del governo M5Stelle-Lega è stato un secondo grande
successo della strategia di Trump, rivendicato dal suo ex consigliere
Steve Bannon.
Forse tra qualche decennio l’apertura degli archivi ci rivelerà
quale sia stato, nei momenti cruciali dopo il voto del 4 marzo, il
ruolo USA nel far pendere la bilancia a favore della coalizione
Lega-5Stelle, rompendo quella di centro-destra. Sta di fatto che
questa coalizione di governo nel suo programma ha posto l’alleanza
con gli USA al centro della politica estera, davanti all’appartenenza
alla UE, e non perde occasione per contrapporsi a
Francia e Germania; Trump stesso ha voluto ricevere il Presidente
del Consiglio Conte assegnando all’Italia un ruolo di preminenza
rispetto alla Libia (per quanto possa valere un tale appoggio
verbale nel confronto con la rivale Francia; alla mezza Conferenza
di Palermo sulla Libia gli USA erano assenti), e nelle
sanzioni americane contro l’Iran l’Italia è stata esentata per sei
mesi, sola in Europa oltre la Grecia. Ancora più indicativa del
collocamento internazionale del governo giallo-verde è la non
partecipazione dell’Italia all’Iniziativa Europea di Difesa (cui
partecipano Francia – che l’ha promossa, Germania, Belgio,
Danimarca, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna, Portogallo,
Finlandia e Estonia), iniziativa attaccata duramente da Trump
perché autonoma dalla NATO.
Il governo Lega-5Stelle va quindi visto in entrambe queste dimensioni:
interna, rispetto al malcontento per la crisi perdurante,
ed esterna, nell’abbandono del solco europeista seguito sia dai
governi di centro-destra che di centro-sinistra, e una accentuazione
della scelta atlantista, ma con la velleità di giocare in proprio
con Russia e Cina. In altri termini: i voti ottenuti per il “reddito di
cittadinanza”, le promesse della riduzione dell’età per la pensione,
la flat tax al 15% sono stati già capitalizzati dagli USA, cui
fa gioco ogni attrito Italia contro UE, Francia, Germania su immigrati,
deficit, spread; mentre le promesse sono per ora ancora
tali.
Quali effetti avrà la guerra di Trump (che sul Wall Street Journal
è già stata definita II Guerra Fredda), è ancora tutto da scoprire,
anche per il suo iniziatore. Mosse e contromosse modificano il
terreno di battaglia, e possono condurre a sviluppi molto diversi
dai piani iniziali. Mentre le bordate sparate contro Messico e
Canada si sono concluse con un nuovo accordo e possono
quindi essere viste come l’alzare la posta nella fase iniziale della
trattativa per poi giungere a una mediazione, nel caso dell’Europa
è per ora stato estorto l’impegno ad acquistare gas americano
in cambio della sospensione dei dazi sull’auto, mentre nel
caso della Cina pare essere solo l’inizio di un duro e lungo confronto
che non punta a un accordo mutualmente conveniente,
ma a piegare l’avversario. Non sono esclusi i mezzi militari, già
presenti nelle acque contese del Mar della Cina Meridionale. Il
tempo è un fattore cruciale. Anche se sul lungo periodo appare
inevitabile il sorpasso cinese sugli USA in tutti i campi, militare
compreso, per ora gli USA hanno ancora una enorme superiorità,
tecnologica e di spesa militare complessiva, che in un
modo o nell’altro cercheranno di fare valere per ricacciare indietro
il rivale e prolungare all’infinito, con le buone o le cattive, il
giorno del sorpasso. Che poi questa guerra, fredda o calda,
possa avere successo, è un altro paio di maniche. Per popolazione,
posizione geografica e profondità strategica la Cina non è la
Germania del secolo scorso.
Quarant’anni fa la Thatcher, e due anni dopo Reagan, lanciavano
il liberismo imperialista come politica strumentale al rafforzamento
della posizione mondiale delle metropoli anglosassoni.
Quelle politiche accelerarono il crollo dell’URSS ma miravano
anche a indebolire l’Europa della “economia sociale di mercato”
tedesca. Ora le parti sono invertite: è la Cina di Xi Jinping
ad agitare la fiaccola del liberoscambio contro le tariffe di Trump,
affiancata da FMI, Banca Mondiale, WTO, dagli europei e dal
Giappone, che non sono tuttavia propensi a morire per Pechino:
potrebbero trovare compromessi con Trump per contenere
l’avanzata cinese nelle proprie aeree di influenza. La precipitosa
ritirata dei gruppi francesi e tedeschi dall’Iran di fronte alle sanzioni
USA, che hanno lasciato i politici europei a discettare sulle
contromisure UE, è indicativa dei rapporti di forza tra USA ed
Europa.
In questo mondo dalle tinte sempre più fosche, l’Italia cambia
orchestra e musica. Mentre restiamo in attesa di vedere le carte
riguardo alle due principali promesse elettorali, “reddito di cittadinanza”
e pensioni, la musica che ha da subito dato il tono del governo è quella razzista. Il vicepremier Salvini non manca
giorno per lanciare un attacco agli immigrati. Ogni fatto di cronaca
nera che veda coinvolto un immigrato diventa una
“dimostrazione” che gli immigrati, e in particolare quelli che arrivano
(sempre più pochi) coi barconi sono criminali, assassini,
stupratori, spacciatori. Con lo stesso metro, per ogni carabiniere
o poliziotto denunciato o condannato per omicidio, violenza, stupro,
corruzione dovremmo concluderne che Salvini ha deciso di
assumere altri 10 mila assassini ecc.
Salvini usa la campagna razzista per diversi fini: il primo è che
istigando la gente su TV, giornali, social media, a prendersela,
per i problemi che incontrano ogni giorno, con “loro”, i “diversi”
che parlano una lingua incomprensibile, molti con la pelle più
scura, Salvini sa che guadagna ogni volta consensi. È un gioco
che è riuscito in Ungheria, in Austria, in Polonia, dopo che era
riuscito a Hitler 85 anni fa. Il secondo obiettivo è che in questo
modo i lavoratori italiani non se la prendono con i loro sfruttatori,
con lo Stato (e il Ministro dell’Interno) che li sostiene e difende,
ma con chi sta sotto di loro ed è indifeso. Il terzo obiettivo è che
a furia di ripetere “prima gli italiani” (come un tempo “prima i lumbard”)
anche il lavoratore è indotto a pensare di avere diritti in
quanto “italiano” anziché in quanto parte della classe lavoratrice,
e che deve difenderli contro gli immigrati anziché contro i
padroni, e quindi a sentirsi prima “italiano” che “lavoratore”. È
l’ideologia nefasta del nazionalismo, che fa del proletario carne
da macello per le guerre del capitale.
Non è un caso che il Decreto Salvini sulla “Sicurezza” combina
un’alta dose di razzismo e di repressione delle lotte operaie e
sociali. La parte sull’immigrazione, con l’abolizione della
“protezione umanitaria” per i richiedenti asilo ha per obiettivo
quello di aumentare gli immigrati “clandestini” da gettare sul mercato
del lavoro in nero, compresa la manovalanza per le centrali
di spacciatori, e con l’aumento del tempo di detenzione e del
numero di immigrati da detenere nei CPR (ex CIE), l’inasprimento
delle norme che prevedono il ritiro del permesso di soggiorno
in presenza di reati si vuole terrorizzare ancor più gli immigrati,
perché si sottopongano docilmente allo sfruttamento a
basso salario.
Con l’estensione dell’applicazione del DASPO urbano viene rafforzato
l’istituto fascista del foglio di via per colpire chi protesta e
lotta per la difesa dei propri diritti, che già viene sistematicamente
applicato contro chi partecipa a picchetti durante gli
scioperi del SI Cobas (a Bologna, nel Modenese, nel Novarese)
ed è stato comminato anche ai 5 plurilicenziati FIAT che protestavano
a Roma. Con la reintroduzione del reato di blocco stradale,
con pene fino a 6 anni si vuole colpire non solo le manifestazioni
di lavoratori che interrompono il traffico, ma anche e
soprattutto i picchetti davanti a magazzini e fabbriche, che sono
nella tradizione del movimento operaio conflittuale e soprattutto
nelle lotte della logistica organizzate da SI Cobas e AdL Cobas si
sono rivelati il metodo di lotta più efficace. Non a caso il provvedimento
viene a seguito della richiesta al governo di prendere
misure contro gli scioperi da parte del presidente della Confetra
(la Confindustria dei Trasporti), che ha ringraziato per il decreto.
Infine l’inasprimento delle pene contro gli occupanti di casa (fino
a 4 anni e 2000 euro di multa) vanno a colpire l’unico modo per
migliaia di famiglie e persone a basso reddito di avere un’abitazione,
difendendo il “diritto” dei proprietari (inclusi gli istituti di case
ex popolari) a tenere vuote centinaia di migliaia di case per
ragioni speculative.
Assieme a questo decreto reazionario, repressivo e razzista,
sostenuto non solo dalla Lega di Salvini, ma anche dai 5Stelle di
Di Maio (con limitatissimo dissenso), l’altro provvedimento
promesso e realizzato, questa volta dal ministro del Lavoro Di
Maio, è quello che avrebbe dovuto abolire il Jobs Act di Renzi, il
“Decreto Dignità”. Un decreto che, non abolendo l’assunzione a
tempo determinato senza causale, quindi a go-go, ma solo limitandola
a 12 mesi anziché 36, finirà per indurre a lasciare a casa
questi lavoratori entro i 12 mesi per assumerne altri a termine.
Neanche il promesso ripristino dell’Art. 18 (reintegro sul posto di
lavoro in mancanza della giusta causa) è stato realizzato, limitandosi
a un aumento degli indennizzi. Di Maio non poteva
alienarsi le imprese grandi e piccole, che sono il principale riferimento
sociale dei Cinquestelle, limitando la loro libertà di licenziare.
I lavoratori che saranno lasciati a casa e licenziati nei prossimi
mesi e anni grazie al Decreto Dignità, hanno un motivo in
più per riflettere. Restano, rispetto alle promesse elettorali, i due
“assi nella manica” di 5Stelle e Lega, reddito di cittadinanza e
pensioni. Queste carte si prospettano truccate.
Come risulta evidente dai dati che pubblichiamo su questo numero,
l’Italia è, tra le maggiori potenze imperialiste, quella che si
è più indebolita negli ultimi due decenni. Per questo i margini per
concessioni sono limitati, rispetto agli altri paesi avanzati. O meglio:
non ci sono margini se non si vuole toccare la borghesia,
che si è arricchita anche negli anni magri aumentando lo sfruttamento
sui lavoratori. Per questo i partiti “populisti” Lega e
5Stelle, essendo borghesi fino al midollo, hanno sparato
promesse che non potranno mantenere che in piccola parte. Le
hanno subito mantenute verso i borghesi con il condono agli
evasori, e la riduzione delle tasse alla piccola borghesia (flat tax
al 15% fino a 65.000 euro di reddito per i lavoratori indipendenti),
hanno confermato sconti sui contributi da pagare per i giovani
neoassunti, e i superammortamenti per le imprese che investono
– vero e proprio taglio delle tasse. Per i lavoratori dipendenti, c’è
il fiscal drag che fa aumentare ogni anno le tasse a parità di
salario reale, prelevate direttamente in busta paga (IRPEF più
addizionali regionale e comunale). Per la sola IRPEF i lavoratori
dipendenti pagano il 23% fino a 15.000 euro, 27% tra 15 e
28mila, 38% sopra i 28mila. Lavoratori tartassati, piccoli borghesi
sgravati: davvero un trattamento DI CLASSE!
“Reddito di cittadinanza” e “quota 100” per le pensioni sono rinviati
a “disegni di legge collegati” alla manovra. Chi li stava aspettando
può aspettare ancora, e saranno possibile merce di
scambio con la UE. Già per le pensioni è stato notato che dai
fondi stanziati si deduce che ce n’è per una “finestra” una tantum
per il solo 2019, e comunque chi ne approfitta perderà tra l’8% e
il 21% di pensione. Anche per il “reddito di cittadinanza” i conti
non tornano. Se le persone con i requisiti ISEE per ottenerlo
sono 5 milioni, ci sono solo 1.800 euro a testa per tutto il 2019.
Se iniziasse ad aprile sarebbero 200 euro al mese, poco più che
un’elemosina. E comunque la sua impostazione è proprio quella
dell’elemosina: tenere i proletari sulla soglia di povertà (i 780
euro sono la soglia di povertà calcolata dall’ISTAT), e offrirli sul
mercato del lavoro, sempre più affollato di avvoltoi in cerca di
lavoro gratuito o a prezzo di svendita, con il ricatto che se non lo
accettano perderanno anche l’elemosina. Di Maio vuole
spendere 1 miliardo per riformare i Centri per l’Impiego, per farne
dei centri che trovano il lavoro ai disoccupati, al posto di limitarsi
a mettere un timbro sulla disoccupazione. Un bel proposito… ma
gli unici posti di lavoro che creeranno saranno quelli per i nuovi assunti nei centri. Così come appare velleitario l’impiego dei destinatari del “reddito di cittadinanza” per 8 ore la settimana in
lavori utili presso i comuni: non possiamo immaginare i Comuni
che organizzano lavori per 5 milioni di persone.
Il nostro giudizio sul carattere borghese e reazionario del governo
Conte è senza se e senza ma. I problemi sorgono dalle
perduranti attese nei suoi confronti di una buona parte dei lavoratori,
coloro che hanno creduto ai proclami antisistema di
Grillo & C., che i problemi dei lavoratori derivassero dalla
“casta” e non dal capitalismo e dalla borghesia che essa serve,
per cui basterebbe cambiare le persone per avere istituzioni
dello Stato al servizio della “gente”, che l’impresa (capitalistica)
sia il fattore costitutivo della società, da sostenere (al punto
dare loro parte degli stipendi dei deputati), così come coloro
che, oltre a quanto precede hanno introiettato l’astio nei confronti
degli immigrati covato a partire dalle proprie difficoltà e
frustrazioni, e “razionalizzato” dalla campagna della Lega e
meda della destra, assecondata dal M5S.
È nella “norma” della società capitalistica che la massa della
classe lavoratrice sia influenzata da ideologie e partiti borghesi.
Nel dopoguerra, fino agli anni ’80, soprattutto dal PCI o dalla
DC, a seconda delle regioni, il primo che pure si presentava
come anti-sistema, mentre era solo filo-URSS, ma difensore del
sistema, come si è poi potuto constatare con la confluenza e
fusione del suo spezzone maggiore con lo spezzone maggiore
della DC nell’attuale PD una volta crollata l’URSS. Ma già negli
scorsi 20 anni una parte crescente dei lavoratori del settore
privato era stata da Forza Italia, promossa dai piccoli imprenditori
loro datori di lavoro. Le delusioni nei confronti dei due partiti
che si sono alternati al governo per 20 anni hanno spinto una
quota consistente di proletari a “cambiare” passando ai 5Stelle
e, in misura minore, a una Lega la cui immagine ha subito il
lifting di Salvini (ma non dimentichiamo che più di un quarto non
hanno votato per nessuno). In mancanza di un movimento di
lotta che facesse “vedere” la possibilità di invertire la rotta con
l’azione diretta, il protagonismo della classe, era inevitabile che
la massa dei lavoratori seguisse chi faceva le promesse più in
consonanza con i propri bisogni immediati. La discrepanza tra
le parole e i fatti, tra le promesse e l’impatto concreto delle
misure del governo sulla vita delle famiglie lavoratrici sarà evidente
solo dopo un paio di anni di governo (ammesso che duri),
anche se Salvini, con la manifestazione anti-UE dell’8 dicembre,
sta già cercando di precostituire l’alibi per le mancate realizzazioni,
da scaricare sugli eurocrati e sull’Europa francotedesca
che vuole schiavizzare l’Italia. (Un’iniziativa presa dal
partito del Ministro dell’Interno, che è anche un tentativo di
creare un movimento sovranista, che nelle future tempeste
potrebbe puntare alla rottura della UE, o comunque a mettere la
stanga tra le ruote di un eventuale asse franco-tedesco).
Come comunisti non possiamo (ancora una volta?) illuderci che
quando la massa lavoratrice si sarà disillusa anche dal nuovo
“nuovo che avanza”, si volga finalmente al comunismo. Innanzitutto
non è detto che basterà la delusione sul terreno
economico per provocare una disillusione politica. Se oltre agli
immigrati passerà l’ideologia che sono Francia e Germania a
impedirci di avere il benessere, il disagio sociale potrebbe
trovare sfogo nel nazionalismo. E in ogni caso, se anche i nuovi
contenitori politici del suo dominio si logorano, la borghesia
costruirà e lancerà altri contenitori dall’apparenza antiestablishment
– si pensi a Bolsonaro in Brasile.
Non c’è nulla da attendere. Occorre contrapporre da subito
l’unità di classe italiani-immigrati e l’internazionalismo al
razzismo e nazionalismo del governo; occorre farlo, per quanto
possibile, in collegamento con le lotte per gli interessi immediati
nei luoghi di lavoro e nei quartieri, dove va comunque condotta
una battaglia politica contro razzismo e sovranismo. CGIL,
CISL e UIL, che da anni non organizzano uno sciopero che non
sia contro la chiusura di un’azienda, non svolgono neppure il
ruolo di sponda del PD che usavano svolgere contro i governi di
Berlusconi con mobilitazioni simboliche (la CGIL è inoltre paralizzata
dalle lotte interne di successione alla Camusso). Nelle
generazioni precedenti i loro iscritti erano elettori o anche iscritti
ai partiti di riferimento dei vertici sindacali (PCI, DC, PSI); oggi il
loro rapporto con il sindacato è principalmente quello a una
struttura di servizi, e il loro voto è in libertà.
Lo “sciopero generale” del 26 ottobre indetto da CUB, SI Cobas,
SGB, USI e Slai Cobas, costruito sulla base delle tradizionali
rivendicazioni operaie (salario, orario, pensioni, sanità, e
per la parità di diritti per gli immigrati) ha confermato la limitata
influenza dei sindacati di base sulla classe lavoratrice, e
l’assenza di spontaneità operaia diffusa, con una partecipazione
agli scioperi che è stata massiccia solo nei magazzini della
logistica (SI Cobas e nel Nordest AdL Cobas), bloccando il trasporto
merci, e significativa anche se minoritaria nel trasporto
pubblico locale di alcune città (CUB, e SGB in Emilia) e in alcuni
ex compartimenti delle ferrovie (CUB).
Lo sciopero ha tuttavia evidenziato, con le troppe reticenze
nelle prese di posizione e nei comizi, la mancanza di una
posizione unitaria contro il governo giallo-verde e la sua politica,
che riflette le diverse impostazioni politiche dei gruppi dirigenti,
influenzati anche dalle attese che molti lavoratori ripongono
nel nuovo governo, mentre la disponibilità alla lotta rimane
generalmente bassa, con l’eccezione del trasporto pubblico
(locale, ferroviario e aereo) e dei lavoratori immigrati, protagonisti
della maggior parte delle lotte degli ultimi anni.
È facendo leva su questa combattività espressa dai lavoratori
immigrati che il SI Cobas ha organizzato la manifestazione del
27 ottobre a Roma, una manifestazione partecipata, con chiari
connotati antirazzisti, anti-sovranisti, anticapitalisti e internazionalisti,
che noi abbiamo appoggiato. Se lo sciopero e le manifestazioni
del 26 e 27 ottobre sono un punto di partenza, occorre
tuttavia lavorare perché il movimento di opposizione al
governo da un punto di vista di classe non rimanga limitato ai
soli lavoratori immigrati, né ai soli lavoratori organizzati nei sindacati
“di base”, che sono una esigua minoranza della classe.
Se non vuole rimanere marginale e perdente, facile bersaglio
della repressione, esso deve estendersi a tutti i settori della
nostra classe, con una battaglia sia sul fronte economico che
su quello politico.
Occorre creare un Fronte unico di lotta, antirazzista su basi
proletarie, anticapitalista e internazionalista che – partendo dai
bisogni immediati delle masse – raccolga le energie di classe
organizzate e non organizzate, sindacali e non, puntando a
collegarlo con analoghi movimenti in Europa e oltre. Di fronte
allo schieramento dell’USB su posizioni sovraniste, portate
anche dentro la coalizione Potere al Popolo, è fondamentale
una battaglia per chiare posizioni internazionaliste. Cosa che
rende ancora più urgente la creazione di una tendenza politica
internazionalista, in un percorso volto alla formazione di un
partito rivoluzionario radicato nella classe. ■