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N°46 Pagine Marxiste - Novembre 2018
Tempi nuovi, echi sinistri
editoriale



Il clima economico e sociale mondiale vede il succedersi di crescenti turbolenze. La ripresa dopo la crisi del 2008 è stata notevolmente diversificata. Mentre Cina, India e alcuni paesi dell’Africa hanno tenuto un passo sostenuto, le metropoli si sono riprese più lentamente che dopo le crisi precedenti, anche se forse proprio per questo la fase ripresa si sta dimostrando una delle più lunghe della storia del capitalismo. L’Italia tuttavia non l’ha vista, è rimasta indietro e non è ancora risalita ai livelli produttivi del 2007, nonostante la politica monetaria ultra-espansiva della BCE, che ha acquistato centinaia di miliardi in titoli di debito pubblico mettendo sul mercato altrettanta liquidità, e tenendo i tassi di interesse vicini allo zero, come mai si era visto nella storia. Non è un caso quindi che l’Italia sia il primo grande paese europeo in cui i partiti “populisti” sono arrivati al governo. È anche il risultato del perdurare, estendersi e acuirsi del disagio sociale per disoccupazione, precarietà, abbassamento dei salari, soprattutto per le giovani generazioni, che ha screditato PD e Forza Italia. Delle loro politiche si sono realizzati solo i sacrifici (sulla flessibilità alias precarietà, sui salari che sono diminuiti, sulle pensioni). Il tunnel in fondo al quale era stata fatta balenare la luce di crescita e benessere si è rivelato senza fine, e alcuni milioni di voti si sono spostati a favore di coloro le cui promesse ancora fresche non hanno ancora potuto essere smentite dai fatti.
Ma c’è anche una seconda dimensione e determinazione della politica da parte del procedere ineguale dell’economia. La massiccia accumulazione di capitali in Cina, in un ciclo di accumulazione che dura da ben 40 anni, ha fatto di questo paese di 1,4 miliardi di persone di gran lunga la prima potenza industriale e commerciale del mondo, con la capacità di grandi esportazioni di capitali in tutti i continenti, tale da poter minacciare in prospettiva la supremazia americana.
Questo fatto ha rafforzato negli USA le correnti che vogliono porre termine al multilateralismo e al libero commercio, fattori che hanno favorito l’ascesa della Cina, e usare armi economiche come il protezionismo per scopi anche politici e militari: da un lato per favorire il rientro negli USA di produzioni strategiche come siderurgia, alluminio, auto, e reindustrializzare il paese, dall’altro per colpire l’export cinese e quindi limitare la crescita della potenza rivale. Ma soprattutto l’Amministrazione Trump punta a impedire l’acquisizione da parte della Cina di tecnologie di punta, in particolare quelle con applicazioni militari. È quella di Trump una guerra condotta (per ora almeno) con altri mezzi rispetto a quelli militari, per indebolire i rivali, non solo la Cina, ma anche l’Europa.
Per quanto formalmente alleati degli USA, come junior partner (soci di minoranza) nella NATO, i paesi europei hanno cercato di unirsi sul piano commerciale e monetario per contendere il dominio soprattutto alla superpotenza americana e ora anche alla Cina in prepotente espansione nelle loro stesse ex-colonie africane. L’euro ambiva a spartire col dollaro il ruolo di moneta internazionale, e non sono mancati tentativi di formare una unità politico-militare europea che rendesse il vecchio continente indipendente dagli USA anche su questo piano. Gli USA hanno visto di buon occhio un mercato comune europeo, ma hanno sempre avversato i tentativi di unione politico-militare europea. Per questo hanno stretto rapporti particolari con (e dislocato truppe nei) i paesi dell’Europa Orientale, dai Paesi Baltici alla Polonia, Ungheria e Ucraina, quali “garanti” non solo nei confronti della Russia a Est, ma anche della Germania a Ovest.
La linea Trump tuttavia fa un salto di qualità nell’interventismo americano in Europa, sostenendo in maniera più o meno esplicita le forze “populiste” e “sovraniste”, ossia contrarie a una maggiore centralizzazione politica europea, con l’obiettivo di riattizzare le rivalità di interessi tra paesi europei, in modo da impedire a Francia e Germania di centralizzare il grande potenziale industriale e finanziario europeo, e permettere agli USA di esercitare una “bilancia di potenza” dentro la stessa Europa. Il voto pro Brexit per l’uscita della Gran Bretagna dalla UE è stata un primo successo di questa linea, prima dell’elezione di Trump; il varo del governo M5Stelle-Lega è stato un secondo grande successo della strategia di Trump, rivendicato dal suo ex consigliere Steve Bannon.
Forse tra qualche decennio l’apertura degli archivi ci rivelerà quale sia stato, nei momenti cruciali dopo il voto del 4 marzo, il ruolo USA nel far pendere la bilancia a favore della coalizione Lega-5Stelle, rompendo quella di centro-destra. Sta di fatto che questa coalizione di governo nel suo programma ha posto l’alleanza con gli USA al centro della politica estera, davanti all’appartenenza alla UE, e non perde occasione per contrapporsi a Francia e Germania; Trump stesso ha voluto ricevere il Presidente del Consiglio Conte assegnando all’Italia un ruolo di preminenza rispetto alla Libia (per quanto possa valere un tale appoggio verbale nel confronto con la rivale Francia; alla mezza Conferenza di Palermo sulla Libia gli USA erano assenti), e nelle sanzioni americane contro l’Iran l’Italia è stata esentata per sei mesi, sola in Europa oltre la Grecia. Ancora più indicativa del collocamento internazionale del governo giallo-verde è la non partecipazione dell’Italia all’Iniziativa Europea di Difesa (cui partecipano Francia – che l’ha promossa, Germania, Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna, Portogallo, Finlandia e Estonia), iniziativa attaccata duramente da Trump perché autonoma dalla NATO.
Il governo Lega-5Stelle va quindi visto in entrambe queste dimensioni: interna, rispetto al malcontento per la crisi perdurante, ed esterna, nell’abbandono del solco europeista seguito sia dai governi di centro-destra che di centro-sinistra, e una accentuazione della scelta atlantista, ma con la velleità di giocare in proprio con Russia e Cina. In altri termini: i voti ottenuti per il “reddito di cittadinanza”, le promesse della riduzione dell’età per la pensione, la flat tax al 15% sono stati già capitalizzati dagli USA, cui fa gioco ogni attrito Italia contro UE, Francia, Germania su immigrati, deficit, spread; mentre le promesse sono per ora ancora tali.
Quali effetti avrà la guerra di Trump (che sul Wall Street Journal è già stata definita II Guerra Fredda), è ancora tutto da scoprire, anche per il suo iniziatore. Mosse e contromosse modificano il terreno di battaglia, e possono condurre a sviluppi molto diversi dai piani iniziali. Mentre le bordate sparate contro Messico e Canada si sono concluse con un nuovo accordo e possono quindi essere viste come l’alzare la posta nella fase iniziale della trattativa per poi giungere a una mediazione, nel caso dell’Europa è per ora stato estorto l’impegno ad acquistare gas americano in cambio della sospensione dei dazi sull’auto, mentre nel caso della Cina pare essere solo l’inizio di un duro e lungo confronto che non punta a un accordo mutualmente conveniente, ma a piegare l’avversario. Non sono esclusi i mezzi militari, già presenti nelle acque contese del Mar della Cina Meridionale. Il tempo è un fattore cruciale. Anche se sul lungo periodo appare inevitabile il sorpasso cinese sugli USA in tutti i campi, militare compreso, per ora gli USA hanno ancora una enorme superiorità, tecnologica e di spesa militare complessiva, che in un modo o nell’altro cercheranno di fare valere per ricacciare indietro il rivale e prolungare all’infinito, con le buone o le cattive, il giorno del sorpasso. Che poi questa guerra, fredda o calda, possa avere successo, è un altro paio di maniche. Per popolazione, posizione geografica e profondità strategica la Cina non è la Germania del secolo scorso.
Quarant’anni fa la Thatcher, e due anni dopo Reagan, lanciavano il liberismo imperialista come politica strumentale al rafforzamento della posizione mondiale delle metropoli anglosassoni.
Quelle politiche accelerarono il crollo dell’URSS ma miravano anche a indebolire l’Europa della “economia sociale di mercato” tedesca. Ora le parti sono invertite: è la Cina di Xi Jinping ad agitare la fiaccola del liberoscambio contro le tariffe di Trump, affiancata da FMI, Banca Mondiale, WTO, dagli europei e dal Giappone, che non sono tuttavia propensi a morire per Pechino: potrebbero trovare compromessi con Trump per contenere l’avanzata cinese nelle proprie aeree di influenza. La precipitosa ritirata dei gruppi francesi e tedeschi dall’Iran di fronte alle sanzioni USA, che hanno lasciato i politici europei a discettare sulle contromisure UE, è indicativa dei rapporti di forza tra USA ed Europa.
In questo mondo dalle tinte sempre più fosche, l’Italia cambia orchestra e musica. Mentre restiamo in attesa di vedere le carte riguardo alle due principali promesse elettorali, “reddito di cittadinanza” e pensioni, la musica che ha da subito dato il tono del governo è quella razzista. Il vicepremier Salvini non manca giorno per lanciare un attacco agli immigrati. Ogni fatto di cronaca nera che veda coinvolto un immigrato diventa una “dimostrazione” che gli immigrati, e in particolare quelli che arrivano (sempre più pochi) coi barconi sono criminali, assassini, stupratori, spacciatori. Con lo stesso metro, per ogni carabiniere o poliziotto denunciato o condannato per omicidio, violenza, stupro, corruzione dovremmo concluderne che Salvini ha deciso di assumere altri 10 mila assassini ecc.
Salvini usa la campagna razzista per diversi fini: il primo è che istigando la gente su TV, giornali, social media, a prendersela, per i problemi che incontrano ogni giorno, con “loro”, i “diversi” che parlano una lingua incomprensibile, molti con la pelle più scura, Salvini sa che guadagna ogni volta consensi. È un gioco che è riuscito in Ungheria, in Austria, in Polonia, dopo che era riuscito a Hitler 85 anni fa. Il secondo obiettivo è che in questo modo i lavoratori italiani non se la prendono con i loro sfruttatori, con lo Stato (e il Ministro dell’Interno) che li sostiene e difende, ma con chi sta sotto di loro ed è indifeso. Il terzo obiettivo è che a furia di ripetere “prima gli italiani” (come un tempo “prima i lumbard”) anche il lavoratore è indotto a pensare di avere diritti in quanto “italiano” anziché in quanto parte della classe lavoratrice, e che deve difenderli contro gli immigrati anziché contro i padroni, e quindi a sentirsi prima “italiano” che “lavoratore”. È l’ideologia nefasta del nazionalismo, che fa del proletario carne da macello per le guerre del capitale.
Non è un caso che il Decreto Salvini sulla “Sicurezza” combina un’alta dose di razzismo e di repressione delle lotte operaie e sociali. La parte sull’immigrazione, con l’abolizione della “protezione umanitaria” per i richiedenti asilo ha per obiettivo quello di aumentare gli immigrati “clandestini” da gettare sul mercato del lavoro in nero, compresa la manovalanza per le centrali di spacciatori, e con l’aumento del tempo di detenzione e del numero di immigrati da detenere nei CPR (ex CIE), l’inasprimento delle norme che prevedono il ritiro del permesso di soggiorno in presenza di reati si vuole terrorizzare ancor più gli immigrati, perché si sottopongano docilmente allo sfruttamento a basso salario.
Con l’estensione dell’applicazione del DASPO urbano viene rafforzato l’istituto fascista del foglio di via per colpire chi protesta e lotta per la difesa dei propri diritti, che già viene sistematicamente applicato contro chi partecipa a picchetti durante gli scioperi del SI Cobas (a Bologna, nel Modenese, nel Novarese) ed è stato comminato anche ai 5 plurilicenziati FIAT che protestavano a Roma. Con la reintroduzione del reato di blocco stradale, con pene fino a 6 anni si vuole colpire non solo le manifestazioni di lavoratori che interrompono il traffico, ma anche e soprattutto i picchetti davanti a magazzini e fabbriche, che sono nella tradizione del movimento operaio conflittuale e soprattutto nelle lotte della logistica organizzate da SI Cobas e AdL Cobas si sono rivelati il metodo di lotta più efficace. Non a caso il provvedimento viene a seguito della richiesta al governo di prendere misure contro gli scioperi da parte del presidente della Confetra (la Confindustria dei Trasporti), che ha ringraziato per il decreto. Infine l’inasprimento delle pene contro gli occupanti di casa (fino a 4 anni e 2000 euro di multa) vanno a colpire l’unico modo per migliaia di famiglie e persone a basso reddito di avere un’abitazione, difendendo il “diritto” dei proprietari (inclusi gli istituti di case ex popolari) a tenere vuote centinaia di migliaia di case per ragioni speculative.
Assieme a questo decreto reazionario, repressivo e razzista, sostenuto non solo dalla Lega di Salvini, ma anche dai 5Stelle di Di Maio (con limitatissimo dissenso), l’altro provvedimento promesso e realizzato, questa volta dal ministro del Lavoro Di Maio, è quello che avrebbe dovuto abolire il Jobs Act di Renzi, il “Decreto Dignità”. Un decreto che, non abolendo l’assunzione a tempo determinato senza causale, quindi a go-go, ma solo limitandola a 12 mesi anziché 36, finirà per indurre a lasciare a casa questi lavoratori entro i 12 mesi per assumerne altri a termine.
Neanche il promesso ripristino dell’Art. 18 (reintegro sul posto di lavoro in mancanza della giusta causa) è stato realizzato, limitandosi a un aumento degli indennizzi. Di Maio non poteva alienarsi le imprese grandi e piccole, che sono il principale riferimento sociale dei Cinquestelle, limitando la loro libertà di licenziare. I lavoratori che saranno lasciati a casa e licenziati nei prossimi mesi e anni grazie al Decreto Dignità, hanno un motivo in più per riflettere. Restano, rispetto alle promesse elettorali, i due “assi nella manica” di 5Stelle e Lega, reddito di cittadinanza e pensioni. Queste carte si prospettano truccate.
Come risulta evidente dai dati che pubblichiamo su questo numero, l’Italia è, tra le maggiori potenze imperialiste, quella che si è più indebolita negli ultimi due decenni. Per questo i margini per concessioni sono limitati, rispetto agli altri paesi avanzati. O meglio: non ci sono margini se non si vuole toccare la borghesia, che si è arricchita anche negli anni magri aumentando lo sfruttamento sui lavoratori. Per questo i partiti “populisti” Lega e 5Stelle, essendo borghesi fino al midollo, hanno sparato promesse che non potranno mantenere che in piccola parte. Le hanno subito mantenute verso i borghesi con il condono agli evasori, e la riduzione delle tasse alla piccola borghesia (flat tax al 15% fino a 65.000 euro di reddito per i lavoratori indipendenti), hanno confermato sconti sui contributi da pagare per i giovani neoassunti, e i superammortamenti per le imprese che investono – vero e proprio taglio delle tasse. Per i lavoratori dipendenti, c’è il fiscal drag che fa aumentare ogni anno le tasse a parità di salario reale, prelevate direttamente in busta paga (IRPEF più addizionali regionale e comunale). Per la sola IRPEF i lavoratori dipendenti pagano il 23% fino a 15.000 euro, 27% tra 15 e 28mila, 38% sopra i 28mila. Lavoratori tartassati, piccoli borghesi sgravati: davvero un trattamento DI CLASSE!
“Reddito di cittadinanza” e “quota 100” per le pensioni sono rinviati a “disegni di legge collegati” alla manovra. Chi li stava aspettando può aspettare ancora, e saranno possibile merce di scambio con la UE. Già per le pensioni è stato notato che dai fondi stanziati si deduce che ce n’è per una “finestra” una tantum per il solo 2019, e comunque chi ne approfitta perderà tra l’8% e il 21% di pensione. Anche per il “reddito di cittadinanza” i conti non tornano. Se le persone con i requisiti ISEE per ottenerlo sono 5 milioni, ci sono solo 1.800 euro a testa per tutto il 2019.
Se iniziasse ad aprile sarebbero 200 euro al mese, poco più che un’elemosina. E comunque la sua impostazione è proprio quella dell’elemosina: tenere i proletari sulla soglia di povertà (i 780 euro sono la soglia di povertà calcolata dall’ISTAT), e offrirli sul mercato del lavoro, sempre più affollato di avvoltoi in cerca di lavoro gratuito o a prezzo di svendita, con il ricatto che se non lo accettano perderanno anche l’elemosina. Di Maio vuole spendere 1 miliardo per riformare i Centri per l’Impiego, per farne dei centri che trovano il lavoro ai disoccupati, al posto di limitarsi a mettere un timbro sulla disoccupazione. Un bel proposito… ma gli unici posti di lavoro che creeranno saranno quelli per i nuovi assunti nei centri. Così come appare velleitario l’impiego dei destinatari del “reddito di cittadinanza” per 8 ore la settimana in lavori utili presso i comuni: non possiamo immaginare i Comuni che organizzano lavori per 5 milioni di persone.
Il nostro giudizio sul carattere borghese e reazionario del governo Conte è senza se e senza ma. I problemi sorgono dalle perduranti attese nei suoi confronti di una buona parte dei lavoratori, coloro che hanno creduto ai proclami antisistema di Grillo & C., che i problemi dei lavoratori derivassero dalla “casta” e non dal capitalismo e dalla borghesia che essa serve, per cui basterebbe cambiare le persone per avere istituzioni dello Stato al servizio della “gente”, che l’impresa (capitalistica) sia il fattore costitutivo della società, da sostenere (al punto dare loro parte degli stipendi dei deputati), così come coloro che, oltre a quanto precede hanno introiettato l’astio nei confronti degli immigrati covato a partire dalle proprie difficoltà e frustrazioni, e “razionalizzato” dalla campagna della Lega e meda della destra, assecondata dal M5S.
È nella “norma” della società capitalistica che la massa della classe lavoratrice sia influenzata da ideologie e partiti borghesi. Nel dopoguerra, fino agli anni ’80, soprattutto dal PCI o dalla DC, a seconda delle regioni, il primo che pure si presentava come anti-sistema, mentre era solo filo-URSS, ma difensore del sistema, come si è poi potuto constatare con la confluenza e fusione del suo spezzone maggiore con lo spezzone maggiore della DC nell’attuale PD una volta crollata l’URSS. Ma già negli scorsi 20 anni una parte crescente dei lavoratori del settore privato era stata da Forza Italia, promossa dai piccoli imprenditori loro datori di lavoro. Le delusioni nei confronti dei due partiti che si sono alternati al governo per 20 anni hanno spinto una quota consistente di proletari a “cambiare” passando ai 5Stelle e, in misura minore, a una Lega la cui immagine ha subito il lifting di Salvini (ma non dimentichiamo che più di un quarto non hanno votato per nessuno). In mancanza di un movimento di lotta che facesse “vedere” la possibilità di invertire la rotta con l’azione diretta, il protagonismo della classe, era inevitabile che la massa dei lavoratori seguisse chi faceva le promesse più in consonanza con i propri bisogni immediati. La discrepanza tra le parole e i fatti, tra le promesse e l’impatto concreto delle misure del governo sulla vita delle famiglie lavoratrici sarà evidente solo dopo un paio di anni di governo (ammesso che duri), anche se Salvini, con la manifestazione anti-UE dell’8 dicembre, sta già cercando di precostituire l’alibi per le mancate realizzazioni, da scaricare sugli eurocrati e sull’Europa francotedesca che vuole schiavizzare l’Italia. (Un’iniziativa presa dal partito del Ministro dell’Interno, che è anche un tentativo di creare un movimento sovranista, che nelle future tempeste potrebbe puntare alla rottura della UE, o comunque a mettere la stanga tra le ruote di un eventuale asse franco-tedesco). Come comunisti non possiamo (ancora una volta?) illuderci che quando la massa lavoratrice si sarà disillusa anche dal nuovo “nuovo che avanza”, si volga finalmente al comunismo. Innanzitutto non è detto che basterà la delusione sul terreno economico per provocare una disillusione politica. Se oltre agli immigrati passerà l’ideologia che sono Francia e Germania a impedirci di avere il benessere, il disagio sociale potrebbe trovare sfogo nel nazionalismo. E in ogni caso, se anche i nuovi contenitori politici del suo dominio si logorano, la borghesia costruirà e lancerà altri contenitori dall’apparenza antiestablishment – si pensi a Bolsonaro in Brasile.
Non c’è nulla da attendere. Occorre contrapporre da subito l’unità di classe italiani-immigrati e l’internazionalismo al razzismo e nazionalismo del governo; occorre farlo, per quanto possibile, in collegamento con le lotte per gli interessi immediati nei luoghi di lavoro e nei quartieri, dove va comunque condotta una battaglia politica contro razzismo e sovranismo. CGIL, CISL e UIL, che da anni non organizzano uno sciopero che non sia contro la chiusura di un’azienda, non svolgono neppure il ruolo di sponda del PD che usavano svolgere contro i governi di Berlusconi con mobilitazioni simboliche (la CGIL è inoltre paralizzata dalle lotte interne di successione alla Camusso). Nelle generazioni precedenti i loro iscritti erano elettori o anche iscritti ai partiti di riferimento dei vertici sindacali (PCI, DC, PSI); oggi il loro rapporto con il sindacato è principalmente quello a una struttura di servizi, e il loro voto è in libertà.
Lo “sciopero generale” del 26 ottobre indetto da CUB, SI Cobas, SGB, USI e Slai Cobas, costruito sulla base delle tradizionali rivendicazioni operaie (salario, orario, pensioni, sanità, e per la parità di diritti per gli immigrati) ha confermato la limitata influenza dei sindacati di base sulla classe lavoratrice, e l’assenza di spontaneità operaia diffusa, con una partecipazione agli scioperi che è stata massiccia solo nei magazzini della logistica (SI Cobas e nel Nordest AdL Cobas), bloccando il trasporto merci, e significativa anche se minoritaria nel trasporto pubblico locale di alcune città (CUB, e SGB in Emilia) e in alcuni ex compartimenti delle ferrovie (CUB).
Lo sciopero ha tuttavia evidenziato, con le troppe reticenze nelle prese di posizione e nei comizi, la mancanza di una posizione unitaria contro il governo giallo-verde e la sua politica, che riflette le diverse impostazioni politiche dei gruppi dirigenti, influenzati anche dalle attese che molti lavoratori ripongono nel nuovo governo, mentre la disponibilità alla lotta rimane generalmente bassa, con l’eccezione del trasporto pubblico (locale, ferroviario e aereo) e dei lavoratori immigrati, protagonisti della maggior parte delle lotte degli ultimi anni.
È facendo leva su questa combattività espressa dai lavoratori immigrati che il SI Cobas ha organizzato la manifestazione del 27 ottobre a Roma, una manifestazione partecipata, con chiari connotati antirazzisti, anti-sovranisti, anticapitalisti e internazionalisti, che noi abbiamo appoggiato. Se lo sciopero e le manifestazioni del 26 e 27 ottobre sono un punto di partenza, occorre tuttavia lavorare perché il movimento di opposizione al governo da un punto di vista di classe non rimanga limitato ai soli lavoratori immigrati, né ai soli lavoratori organizzati nei sindacati “di base”, che sono una esigua minoranza della classe. Se non vuole rimanere marginale e perdente, facile bersaglio della repressione, esso deve estendersi a tutti i settori della nostra classe, con una battaglia sia sul fronte economico che su quello politico.
Occorre creare un Fronte unico di lotta, antirazzista su basi proletarie, anticapitalista e internazionalista che – partendo dai bisogni immediati delle masse – raccolga le energie di classe organizzate e non organizzate, sindacali e non, puntando a collegarlo con analoghi movimenti in Europa e oltre. Di fronte allo schieramento dell’USB su posizioni sovraniste, portate anche dentro la coalizione Potere al Popolo, è fondamentale una battaglia per chiare posizioni internazionaliste. Cosa che rende ancora più urgente la creazione di una tendenza politica internazionalista, in un percorso volto alla formazione di un partito rivoluzionario radicato nella classe. ■







Pubblicato su: 2018-11-27 (585 letture)

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