A sinistra dello spettro politico, è comparsa nelle passate elezioni la meteora di “Potere al Popolo”, che ha suscitato le speranze in settori del “movimento”, nell’illusione che si trattasse di un movimento “nuovo”, dal basso e portatore di istanze delle lotte sul territorio.
Non abbiamo condiviso quelle speranze e illusioni, per le ragioni che sono bene esposte nel documento sulle elezioni del 4 marzo del collettivo Cuneo Rosso, che abbiamo condiviso e di cui riportiamo la parte riguardante la lista Potere al Popolo. Alla conta dei voti, PaP ha ottenuto circa l’1,2% del totale nazionale. Nei quartieri di Napoli di maggior radicamento, dove operano i centri sociali promotori, e dove ha avuto il sostegno della giunta De Magistris, ha raggiunto il 5-6%, ma nelle zone più povere della stessa Napoli solo l’1%, a fronte di un plebiscito per il M5S fino oltre il 60% dei voti. A Roma, area di maggiore presenza di Rete dei Comunisti e USB, PaP ha ottenuto intorno all’1,5%, raccogliendo solo una piccola parte dell’ex bacino elettorale di Rifondazione.
"Potere al popolo": nostalgia per un passato idealizzato.
La terza novità/non novità delle elezioni del 4 marzo è la presenza della lista "Potere al popolo". La narrazione dei suoi promotori è: "noi siamo la voce delle lotte". Sennonché da anni i conflitti sociali sono in Italia, per quantità e qualità, ai minimi dal dopoguerra. È dunque più aderente alla realtà considerare PaP una coalizione tra aree politiche e organizzazioni (Rifondazione, Rete dei comunisti, etc.) che, lotte o non lotte, hanno deciso di presentarsi insieme alle elezioni in quanto portatrici di un progetto politico, o di più progetti politici convergenti. Del resto, è noto, il centro sociale Je so' pazzo ci pensava da tempo, avendo in mente una replica italiana di Podemos e/o l'ipotesi di un consorzio europeo di città "ribelli". Ma non si può sostenere che abbia fatto questo passo perché pressato da un forte movimento di massa che all'oggi non c'è, né a Napoli né altrove. Le sole lotte energiche degli ultimi anni sono quelle dei facchini, in grande maggioranza immigrati, della logistica e poche altre, e non risulta che sia venuta da lì la richiesta di presentarsi alle elezioni. Anche il circuito dei centri sociali che fa capo a Infoaut, il CSA Vittoria di Milano, l'ex-Canapificio di Caserta e il movimento di lotta per la casa di Roma si sono tirati esplicitamente fuori.
Tuttavia il lancio di Potere al popolo ha suscitato qua e là almeno iniziali entusiasmi e la speranza di poter uscire con questa iniziativa dal particolarismo e dall'asfissia politica degli ultimi anni, facendo irrompere sulla scena di questa campagna elettorale (ed oltre) le genuine aspettative "popolari". Vedremo se questa esperienza riuscirà a indirizzare ed esaltare la genuina volontà di impegnarsi in politica che anima molti suoi giovani militanti e simpatizzanti, o finirà invece per deviarla e deprimerla; se riuscirà a modificare i rapporti di forza a favore del "popolo", come promette di fare, oppure no (per noi, è la seconda che abbiamo detto). Intanto PaP ha presentato il suo programma che, come per ogni altra forza politica, ha un valore fondamentale. Un programma ampio e articolato, composto, ha calcolato un suo critico, di ben 67 obiettivi. Più che sui suoi singoli punti - su diversi dei quali, a partire dall'abolizione del Jobs Act, non si può che essere d'accordo -, ragioniamo qui sulla prospettiva politica di PaP, che dà il vero significato alle singole rivendicazioni e ai mezzi per raggiungerle, e viene proposta con decisione dai suoi "portavoce" anche per il dopo-elezioni, si entri o meni in parlamento. La prospettiva che unisce tutte le componenti di PaP è quella di una lunga marcia nelle istituzioni democratiche con l'obiettivo di arrivare a una "democrazia progressiva".
L'elemento-chiave del programma è infatti il richiamo alla Costituzione. Il punto 1 di esso parla chiarissimo: "Vogliamo l'uguaglianza, vogliamo salari dignitosi, il rispetto di chi lavora. Perché su chi lavora è fondata la Repubblica. Chiediamo troppo? Chiediamo solo quello che è già scritto nella nostra Costituzione, nata dalla lotta di liberazione dal nazi-fascismo e da un grande protagonismo delle masse. (...) Vogliamo dunque la piena attuazione della Costituzione nata dalla Resistenza, e in particolare dei suoi aspetti più progressisti". Il forte richiamo alla piena attuazione del dettato della Costituzione nata-dalla-Resistenza, quella che ha retto efficacemente come quadro ideologico-giuridico d'insieme 70 anni di capitalismo imperialista, è una scelta di campo politica e di principio. Perché se nonostante l'art. 11 sia stato ridicolizzato da 70 anni di guerre targate Nato; se nonostante i suoi aspetti "più progressisti" siano stati completamente svuotati, nella materialità dei rapporti sociali di produzione, prima dai padroni delle ferriere alla Valletta-Agnelli, poi dalla legislazione per precarizzare al massimo il lavoro salariato inaugurata dai decreti Treu (primo governo Prodi, con il sostegno esterno di Rifondazione); se nonostante siano stati inseriti nella Costituzione il Fiscal Compact e il federalismo competitivo; se nonostante tutto ciò, la Costituzione del 1947 resta il punto di riferimento primo, ciò significa che per PaP questa democrazia, questo stato democratico è la frontiera assoluta entro il cui perimetro muoversi. Il suo obiettivo dichiarato, del resto, è "ripristinare l'equilibrio istituzionale" violato nei rapporti tra un parlamento sempre più svuotato e un potere esecutivo diventato anche potere legislativo, ridando "centralità a un Parlamento eletto con un sistema proporzionale". Ritornare, quindi, a quando il parlamento era al centro del sistema democratico. Quando? L'estromissione del PCI dal governo (1947) o l'adesione alla Nato (1949) furono forse deliberate in parlamento?
All'indietro guarda pure il programma economico di PaP. Anche in questo caso, si dice, "partiamo (...) dalla Costituzione" per rimuovere "gli ostacoli all'uguaglianza" e per "ricostruire il controllo pubblico democratico sul mercato". Ripristinare, ricostruire... qualcosa che un giorno, prima dell'era "neo-liberista", c'era e ora non c'è più. Quanta nostalgia per il passato, in cui non risulta che al potere ci fosse il "popolo" (o no?), e quale cattiva lettura delle sue cause! Perché ciò che i lavoratori italiani ed europei ottennero in termini materiali e di diritti nel trentennio 1945-1975 non fu l'effetto delle politiche di stampo keynesiano, scambiate da PaP, idealizzandole, per politiche di "controllo pubblico sull'economia". Fu il risultato combinato di fattori molto eterogenei tra loro: le lotte operaie; le immani devastazioni prodotte dalle due guerre e dalla crisi del '29 che resero possibile un lungo ciclo di sviluppo sostenuto; la rapina neo-coloniale sulle masse del Sud del mondo. Senza dimenticare il fattore internazionale: quel simulacro di "socialismo" costituito dall'Urss, la cui presenza andava comunque tenuta in conto.
L'assunzione della Costituzione del 1947, e quindi della democrazia borghese, a cardine del proprio programma e della propria prospettiva di azione, fa tutt'uno con la scelta dei promotori di PaP di caratterizzarsi in economia e in politica in senso anti-liberista, ma non anti-capitalista, ricorrendo alla finzione di identificare l'anti-liberismo con l'anti-capitalismo. A questa collocazione ideologico-politica di democratismo radicale (ma il collateralismo alla giunta De Magistris a Napoli fa pensare a qualcosa di molto diverso) si deve la cancellazione dal loro linguaggio della categoria-classe e la sua sostituzione con la categoria-popolo. Meno di 4 anni fa, in "Dove sono i nostri", i promotori napoletani di PaP scrivevano: «cercare di capire chi siamo non è stato facile. Non ci potevamo accontentare di definizioni generiche come "il popolo", "la gente", "i cittadini": per quanto molto diffuse, queste definizioni sono ingannevoli, non ci permettono di comprendere le distinzioni che ci sono nel corpo sociale. Ci fanno credere che abbiamo tutti gli stessi problemi, e che magari i nostri nemici sono "la casta" dei politici che rubano... Sono definizioni che non ci dicono le differenze economiche e dunque di potere che vigono all'interno della società, che non ci spiegano nulla di quello che noi facciamo concretamente e di quello che accade in generale». Ben detto ieri, mal dimenticato oggi. Una simile evoluzione o involuzione, a seconda dei punti di vista, rimanda ad un dato di fatto indiscutibile: il reazionario "populismo" grillino ha fatto scuola anche a sinistra, dove ha imposto l'ingannevole - copyright Clash City Workers, 2014 - categoria popolo come soggetto (meglio: oggetto) di riferimento. Ingannevole perché fa riferimento a un insieme indistinto di classi sociali dai diversi e contraddittori interessi immediati e storici. Indistinto e indefinito fino al punto da finire con l'identificarsi con la nazione, inclusa, implicitamente, la classe degli sfruttatori di "casa nostra" che in una simile "narrazione" scompare quasi del tutto dalla vista.
Inserito in questa prospettiva di piena attuazione della Costituzione, lo stesso riferimento al "potere popolare" si svuota automaticamente. Perché esclude ogni ipotesi di rottura, sia pure in lontananza, della macchina dell'oppressione democratica. Esclude quindi l'unica via che potrebbe consentire al "popolo" (ammesso che si voglia parlare del "popolo dei lavoratori") di prendere il potere che oggi è saldamente in mani nemiche. Ma una volta esclusa la rottura della macchina democratica e la effettiva presa del potere, ciò che residua è il controllo "popolare" sulla regolarità del voto, su un minimo di dignità nei "Centri di accoglienza", sul funzionamento "corretto" degli Ispettorati del lavoro, sul "rispetto delle regole" nei dormitori pubblici, etc., insomma la generalizzazione della esperienza fatta in questi anni a Napoli. L'auto-attivazione di massa in difesa dei diritti violati è cosa fondamentale, così come il mutuo aiuto tra oppressi. È tuttavia quanto meno esagerato vedere nelle citate esperienze di "controllo" o di mutuo aiuto altrettante forme di addestramento all'autogoverno e all'esercizio del potere. A meno di avere in mente di "prendere il potere" senza prendere il potere... È questo un rilievo ideologico che riguarda solo il lontano futuro di cui non ha senso parlare oggi con gli attuali chiari di luna? Assolutamente no. È PaP (non noi) che ha messo in primo piano, come elemento identificativo della sua proposta politica, la questione del potere, e va presa sul serio. Se poi il suo discorso sul potere si rivela nient'altro che fuffa, questo non dipende dalla critica.
Eurostop: un realismo irrealistico, e pericoloso
Accanto all'anima mutualista, municipalista, movimentista è presente in "Potere al popolo" l'area di Eurostop, che è la più solidamente organizzata potendo contare anche sull'USB. Questa area insiste sul fatto che la rottura con l'euro e con l'UE è il primo passo da compiere lungo la via che conduce al socialismo - che in questo caso è evocato come meta finale. In un'intervista a l'Antidiplomatico il suo candidato di spicco Cremaschi, pur apprezzando alcuni esponenti dei 5S e Borghi della Lega, "che ha posizioni socialisteggianti quando parla dell'Unione europea" (sic!), ci tiene a rivendicarlo: "siamo gli unici a porre la rottura con l'Unione europea come cardine del nostro programma". Solo il "ritorno alla sovranità monetaria", e quindi alla lira (la celebre sovranità della lira, libera a suo tempo solo di svalutarsi), consentirebbe di riconquistare insieme sovranità nazionale e sovranità popolare ("lavoro, welfare e diritti sociali") .
Ma si può identificare la radice di tutti i mali nei soli "poteri esterni" dell'euro e della UE, solo a condizione di rifiutarsi di vedere che: 1) le radici delle politiche neo-liberiste degli ultimi decenni sono sistemiche, come sistemica è la ragione per cui sono state adottate universalmente, anche nella Russia di Putin, nella Siria di Assad e nella Cina dei miracoli "rossi" per le quali i sovranisti di PaP hanno più di qualche simpatia; 2) il capitale con storico insediamento in Italia e i suoi funzionari politici, finanziari, amministrativi sono stati e sono tra i primi sponsor di queste politiche, fatte salve le normali frizioni tra soci-concorrenti, specie tra soci di minoranza e di maggioranza. È evidente: il pacchetto di maggioranza di Europa s.p.a. è in mani tedesche e francesi, e questa circostanza penalizza, in certa misura, i lavoratori italiani. Però la soluzione che Eurostop prospetta a questa contraddizione, invece di essere realistica e vantaggiosa per i lavoratori, è illusoria e pericolosa.
Illusoria, perché sganciarsi dall'euro e dall'Unione europea non può significare in alcun modo sganciarsi dal mercato mondiale; può significare esclusivamente adottare un modo più aggressivo e competitivo di stare dentro il mercato mondiale. Che partirebbe di necessità dalla secca svalutazione della rinata lira, quindi dei salari: non l'ha mai nascosto il superguru-Bagnai, tanto citato, perfino osannato da sinistra, ed ora opportunamente candidato nelle liste di Salvini. Per non dire, poi, dell'esperienza della Brexit che, come riconosce ormai un rapporto dello stesso governo britannico, procurerà al Regno Unito 15 anni di rallentamento della sua performance economica - una difficoltà su cui è prontissimo a gettarsi, per lucrarne, quel vecchio satrapo dello zio Sam, che difficilmente sarà con i proletari britannici più clemente e misericordioso degli usurai di Francoforte e di... Milano. Oltre che illusoria, la presunta soluzione di marca Eurostop è pericolosa perché produce un surplus di intossicazione nazionalista, motivato da ragioni "sociali" e "popolari", spingendo di fatto verso una più accesa concorrenza tra i lavoratori dei diversi paesi europei, del Nord e del Sud dell'Europa, anziché verso la loro lotta solidale contro i propri sfruttatori nazionali e le super-gang europee.
Il punto d'incontro delle due anime di PaP è ancora una volta la magica Costituzione del 1947 per riaffermare, con essa, "la sovranità democratica e popolare del nostro paese": la sovranità popolare sancita con il divieto costituzionale al popolo sovrano di mettere becco nella politica internazionale e in quella fiscale (art. 75). In questa ottica il nemico contro cui battersi è esterno all'Italia: sta a Bruxelles, a Berlino, a Francoforte, a Washington; ovunque salvo che a Roma e Milano. Altrimenti che senso ha parlare di recupero di sovranità? Ma proviamo a dar ragione alla logica sovranista (versione hard e versione soft): se a decidere tutto sono per davvero solo i grandi poteri globali, sovranazionali, sulla testa di quelli nazionali e contro di essi, la dimensione internazionale e internazionalista della risposta di classe dovrebbe essere fondamentale. C'è un'Unione europea che soffoca i lavoratori di tutta Europa (non solo quelli italiani, esatto?) con le sue politiche e la sua moneta? Allora diamoci da fare per unificare contro Bruxelles-Francoforte le forze dei lavoratori di tutta Europa, lavoriamo a una catena di scioperi europei unendo le forze dei lavoratori contro la cricca degli eurocrati. Niente affatto! La prospettiva di Eurostop è tutt'altra: è essenzialmente nazionalista. Non a caso ha assunto a suo modello la France insoumise, un partito che, con maggior nettezza di PaP, mette al primo posto, già nel suo nome, gli interessi della propria nazione, non fa mistero di voler difendere, anzitutto contro Regno Unito e Germania, "l'interesse nazionale dei francesi", e - in caso di rifondazione dell'Europa, il suo piano B - prevede la svalutazione dell'euro per rendere più competitive le merci europee, abbassando il valore dei salari europei. Guarda caso, si comincia sempre da lì...
La prospettiva che avanza Eurostop è dunque quella di un'alleanza tra la France insoumise, l'Italia ritornata sovrana, la Catalogna libre, etc., che sarebbe quanto mai traballante visto che gli interessi di queste nazioni capitalistiche sono in conflitto tra loro. E non farebbe altro che spianare la strada ai nazionalismi più violentemente anti-operai, salvo accorgersene a babbo morto: vedi il disastro avvenuto in Catalogna, dove l'estrema sinistra sovranista si è comportata, suo malgrado, da utile idiota delle destre. Di Grecia e di Syriza non si ama parlare, se non per stigmatizzare il tradimento di Tsipras. Molto strano. Perché dovrebbe costituire un monito permanente su dove conduce inevitabilmente la pretesa di riformare il tardo-capitalismo in senso egualitario, legalitario, "sovrano". E sì che nel caso della Grecia non sono mancate le lotte operaie, proletarie, giovanili! In realtà il preteso realismo eurostoppista è del tutto irrealistico: non ci sono spazi per una riforma in senso sociale, o "socialisteggiante", del sistema capitalistico, né dentro l'Unione europea, né fuori di essa. Di questo bisognerebbe prendere atto, definitivamente. Il che non significa affatto ritirarsi dalle lotte parziali contro il governo di Roma e quello di Bruxelles-Francoforte, al contrario! Le battaglie parziali, la cancellazione del Fiscal Compact ad esempio, sono in ogni caso obbligate ed essenziali. Ma ancora una volta, decisiva è la prospettiva, l'esatta identificazione del nemico di classe. Decisivi sono i terreni e i metodi di lotta, il programma di lotta, l'obiettivo da perseguire, la strategia per arrivarci.
Anche su un altro aspetto le due anime di Potere al popolo trovano la piena convergenza: ed è nella finzione cinematografica di trovarsi anziché in Italia, un paese integralmente imperialista, nei paesi dominati del Sud America. Nei loro testi e discorsi c'è un diluvio di riferimenti a Cuba, a Castro, al Che, a Mariategui, a Chavez, con paragoni francamente grotteschi tra l'eroica battaglia elettorale in corso e quella del Che: ma avete fatto mente locale a dove e come s'è svolta la lotta all'imperialismo in Sud America? Ecco qui un altro remake: si riedita la vecchissima canzone del PCI di un'Italia-colonia asservita alla Nato e agli yankee, dimenticando che è stata uno dei 12 soci fondatori dell'alleanza. Ancora Cremaschi: "l'Italia è un paese canaglia per colpa della Nato", che l'avrebbe ridotta in una condizione di "servitù" obbligando la povera vittima incensurata "a delinquere" contro la sua volontà. Come se l'Italia di De Gasperi, Craxi, Berlusconi, D'Alema e Gentiloni, erede legittima dell'Italia liberale di Crispi e di quella fascista di un sempre più rivalutato Mussolini; l'Italia di Finmeccanica, Beretta, Alenia, Agusta, Fincantieri, Valsella, Siai Marchetti, Oto Melara, Selex, Fiocchi, etc., e delle decine di missioni belliche sparse per tutti i continenti; non fosse stata e non fosse in prima fila nell'Alleanza militare atlantica, nonché in altre alleanze di volonterosi carnefici neo-colonialisti, e nella fornitura ad esse dei mezzi di distruzione di massa. Torna, da sinistra, in nome del "potere al popolo", il ridicolo refrain caro alla sua classe dirigente storica: "italiani brava gente"...
La grande crisi.
Ce ne vogliamo occupare?
Dunque, al di là di una stagionata retorica sul nuovo modo di fare politica, anche la "novità" di PaP non porta nulla di realmente nuovo. Con ogni probabilità genererà altre delusioni e dispersioni di forze. E debolissimo è l'argomento: "si tratta soltanto del primo passo fatto in un contesto contro-rivoluzionario. Oggi solo questo è possibile." La situazione è pesantissima, il cammino (per noi, il cammino della rinascita del movimento proletario) è lungo. Su questo non ci piove. E nessuno ha in tasca ricette miracolose e istantanee. Ma la questione chiave, tanto più in questo contesto, è in quale direzione muovere i primi passi. Dove mai può condurre un cammino che inizia con la solenne fedeltà al quadro istituzionale che ci opprime e con il riciclaggio a sinistra di tematiche organiche alle destre nazionaliste?
Ciò detto, quello che più ci preme è portare all'attenzione di quanti non intendono arrendersi all'andazzo dominante, votino o non votino, le questioni cruciali in gioco. Che non si sono mai decise con il voto. E sono restate ai margini del frastuono di queste settimane. […]
[Da: Le elezioni del 4 marzo. Arsenico, vecchi merletti e nuove questioni - La redazione de "Il cuneo rosso" – Marghera - com.internazionalista@gmail.com]