Editoriale
Gli italiani hanno votato, con la pancia e con un occhio al portafogli, sia quando pieno che quando vuoto… e hanno mandato a quel paese quelli che hanno governato negli ultimi 25 anni, sia i Prodi-D’Alema-Bersani-Renzi che il Berlusconi. Di questo siamo contenti. Ma al posto loro hanno votato non chi è contro questo sistema sociale e politico borghese e capitalistico, ma chi dice di saperlo meglio difendere e gestire. Fra quanti anni i lavoratori e i giovani proletari che hanno votato Lega o 5 Stelle si accorgeranno di essere caduti in una nuova illusione?
Crollate le ideologie figlie del bipolarismo USA/URSS che dividevano il “popolo” tra bianchi e rossi, rifluite le lotte che avevano rafforzato le idee classiste tra gli operai, oggi il voto è mobile e volubile. Hanno votato per disfare la Fornero e il Jobs Act, per tagliare le tasse in busta paga e quelle sui profitti, per il reddito di cittadinanza quando resti senza lavoro.
I marxisti (a differenza dei socialdemocratici e degli stalinisti) non sono affetti dal morbo del "cretinismo parlamentare" e sanno che solo la lotta è in grado di permettere degli avanzamenti fino a che perdura il sistema capitalista e solo la lotta può determinare la trasformazione sociale e la fine dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Tuttavia le elezioni hanno una funzione importante nella società capitalistica: la borghesia cerca in tutti i modi di evitare che il malcontento si traduca in lotta e di indirizzarlo verso il meccanismo elettorale come surrogato della lotta e della organizzazione di classe indipendente, illudendo i proletari, che sono la maggioranza, di avere individualmente la stessa voce in capitolo sulle sorti dello Stato che hanno i borghesi: ‘una testa, un voto’. E cerca di convincerli quindi che lo Stato è lo Stato di tutti, che “lo Stato siamo noi”, che se non fanno l’interesse di tutti basta cambiare gli eletti in Parlamento; che non serve una nuova Comune di Parigi, una nuova Rivoluzione d’Ottobre che rovesci lo Stato dei padroni.
Anche per questo oggi in un mondo in cui ovunque domina il capitalismo, la forma statale più diffusa adottata dalla borghesia è quella democratica, anche se vi sono importanti eccezioni, come la Cina, dove il capitalismo prospera sotto il partito unico, o la Russia, dove vige una forma di bonapartismo, o l’Iran (teocrazia) e Arabia Saudita (monarchia assoluta).
D’altra parte sia Marx ed Engels, che Lenin ritenevano che i comunisti dovessero partecipare alle elezioni per rafforzare il movimento di lotta contro il capitalismo. Marx ed Engels in alcune occasioni (ad esempio1852, 1872) dichiarano addirittura possibile l’ascesa al potere della classe operaia per via elettorale in paesi capitalistici maturi come USA e Gran Bretagna; in altre occasioni (es. nel 1884) Engels afferma che il suffragio universale è “la misura della maturità della classe operaia. Più non può né potrà mai essere nello Stato odierno”. Le due uniche occasioni in cui il proletariato ha preso il potere, la Comune e la Rivoluzione d’Ottobre, ciò non è avvenuto tramite elezioni.
Il fatto che denunciamo il carattere della democrazia borghese non significa che i comunisti non debbano difendere gli spazi “democratici” di organizzazione e di espressione dei lavoratori.
Riaffermati questi principi, le elezioni e queste ultime in particolare, pongono una serie di questioni.
1) Qual è la “misura della maturità della classe operaia” espressa nel voto italiano? C’era una sola lista che si dichiarava apertamente anticapitalista (per una Sinistra Rivoluzionaria): ha ricevuto 20 mila voti. La “classe operaia” non vuole rovesciare il capitalismo, vuole restare sfruttata, solo pagare un po’ meno tasse, godersi qualche anno in più di pensione, non morire di fame se resta senza lavoro. Tutto qui. Lasciando che i padroni restino padroni, che la produzione sia per il profitto di pochi (e per le spedizioni militari), e non per i bisogni di tutti, che gli immigrati siano rispediti al loro paese (se poi gli succede qualcosa, non è nostro problema)… no comment, per pietà di classe, sul voto da dare a questa immaturità.
2) La democrazia è “il miglior involucro” del capitalismo, ma non sempre gli elettori, il “popolo” votano come i capitalisti vorrebbero. Perché il capitalismo non può sopprimere le proprie contraddizioni che portano a crisi e disoccupazione; perché i capitalisti non hanno altri limiti nello sfruttamento che la resistenza dei lavoratori. Quindi quando i lavoratori sono scontenti perché le loro condizioni peggiorano, possono protestare votando. Questo voto è stato un’accusa contro chi hanno eletto… nel voto precedente, contro Renzi che col Jobs Act aveva attuato il ‘sogno’ dei padroni privando i lavoratori delle già scarse tutele legali. È vero che ci sono potenti ‘suggeritori’ nei mass media, che coi loro riflettori hanno indirizzato il voto di protesta su Lega e 5Stelle, lasciando nel cono d’ombra gli anticapitalisti. Ma la grande borghesia, si trova ora a dover formare il suo “comitato d’affari” governativo a partire da un personale politico che non può considerarsi diretta espressione di Confindustria e banche (piuttosto, di piccole imprese, commercianti, professionisti; operai non ce n’è). È il prezzo che il capitalismo paga per evitare che i lavoratori “votino” scendendo nelle strade e nelle piazze.
Come riassume uno studio del CISE sul cambiamento dalle elezioni del 2008 ad oggi:
“I partiti mainstream, quelle forze politiche che a livello europeo fanno parte dei gruppi popolare, socialista e liberal-democratico (ossia il PPE, il PSE e l’ALDE) hanno perso in 10 anni quasi 18 milioni di voti. Nel 2008 valevano poco più di 30 milioni di voti, circa l’83% dei voti validi, oggi sono ridotti ad appena 12,3 milioni di voti. In questi anni il centro si è svuotato e non esiste più. Il centrosinistra ha perso quasi 7 milioni di voti, la destra addirittura 9. Una vera e propria apocalisse del voto moderato e filo-europeo.
Questi 18 milioni di elettori in movimento (circa la metà dei voti validi delle elezioni del 2008) si sono così suddivisi: il 60% circa è andato al M5S, il 20% è andato a riempire le fila della ‘destra radicale’ (o ‘sovranista’), mentre il restante 20% è finito nell’astensione. La sinistra radicale è invece rimasta più o meno costante, poco sopra il milione e mezzo di voti.” (Lasciamo perdere questa definizione di PRC e LEU come “sinistra radicale” … ).
Sarebbe stato “capovolto il sistema”.
“Il baricentro moderato, europeista, mainstream è saltato: il centrosinistra a guida PD ha dimezzato i voti (da 14 a 7 milioni) e la destra moderata a guida Forza Italia è stata sfidata e battuta dalla destra anti-establishment. Basti pensare che nel centrodestra del 2008 il rapporto tra forze moderate e radicali era di 3,5 a 1 a favore delle prime, oggi invece è di 1,5 a 1 a favore delle seconde.
Nel complesso, il rapporto tra forze mainstream e forze anti-establishment era di 5,5 a 1 dieci anni fa (30 milioni contro 5,5 milioni). Oggi la situazione si è ribaltata: i partiti mainstream si sono ridotti a 12 milioni, mentre i partiti anti-establishment sono balzati a quasi 20 milioni di voti (il rapporto è quindi di circa 0,6 a 1).”
Anche se non condividiamo l’aggettivo “radicale” per M5S e Lega, è vero che si sono presentati come “anti-establishment” e anche per questo sono stati votati.
Ora si tratta, per i padroni del vapore, di fare uscire in Parlamento una maggioranza e un programma compatibili con gli interessi del capitalismo italiano. Una missione non facile, perché per vincere voti tutti hanno fatto a gara a promettere, e quindi o le promesse verranno disattese o qualcuno dovrà pagare… Ma neanche una missione impossibile, dato che tutti, Centro Destra, M5S e PD sono per far funzionare questo sistema inceppato, non certo ribaltarlo. Poi nelle Direzioni dei Ministeri resteranno i grand commis di fiducia del capitale, quelli che inseriscono le postille giuste nelle leggi, e i vari lobbisti “educheranno” con charme e prodigalità i nuovi parlamentari ai “valori” dei gruppi d’interesse. Se poi fossero riottosi, saranno ‘i mercati’ a farli rigar dritto, o a sbalzarli di sella. D’altra parte Di Maio è corso prima a cercare la legittimazione della city, e ora a fornire garanzie di continuità su UE e NATO, e Grillo a candidare Torino per le Olimpiadi: presi i voti sono pronti ad essere cooptati nell’establishment.
Non abbiamo la sfera di cristallo e non possiamo dire oggi se ci sarà, e quale, soluzione governativa, né quanto tempo la prossima crisi economica internazionale lascerà respirare l’Italia che ancora deve uscire da quella di dieci anni fa. Una ripresina prolungata potrebbe portare al prossimo governo qualche lenticchia da mettere sul piatto dei poveri, e una più luccicante flat tax con salsa di decontribuzione sul piatto dei ricchi… purché chi lavora sgobbi ancora di più, e paghi di più per i trasporti e la sanità … Quel che è certo è che ciò che è stato tolto ai lavoratori non sarà ridato loro in virtù delle crocette elettorali, ma solo della loro lotta. Nelle democrazie che funzionano come “miglior involucro” del capitalismo, dopo ogni crisi gli elettori “puniscono” il partito al governo, e votano per l’opposizione (è l’“alternanza” o pendolo, che era quasi una regola negli USA e in Europa prima dell’ascesa dei populismi). La crisi e il multipolarismo stanno stritolando i due vecchi poli, e si avanza in terre sconosciute.
3) Se le guardiamo dalla postazione europea, le elezioni politiche in Italia hanno segnato, come successo del resto in molti altri paesi europei, un momento di netta “discontinuità” con la storia della cosiddetta “Seconda Repubblica”, registrando la netta affermazione delle forze “populiste” ed “euroscettiche”. Di “antieuropeismo” vero e proprio non si può parlare, perché al di là di qualche rodomontata di Salvini affogata nella melma razzista contro gli immigrati, il tema “Euro Sì/Euro No”, “U.E. Sì/U.E. No” è stato praticamente messo in un cantuccio nelle fasi finali della campagna elettorale; dopo che lo stesso Di Maio aveva fatto il salto della quaglia dichiarando a Bruxelles che nulla aveva di che preoccuparsi dal M5S...
Questi due “poli” elettorali “populisti” (M5S e Lega) hanno superato insieme il 50% dei voti, demolendo il governativo “Terzo Polo” (la coalizione di Centro-Sinistra) e sancendo la probabile fine del berlusconismo. Da parte sua, la congregazione dei “riciclati istituzionali” di LEU ha raccolto meno della metà di quanto preventivato per “rimettere in pista” la “sinistra” (sic).
La Lega ha “vampirizzato” il Nord Italia e sfondato nel Centro, drenando una caterva di voti agli “alleati” di Forza Italia, e spodestando il primato del PD in parte di quelle che un tempo furono le “regioni rosse”. Ma – cosa inedita – essa ottiene percentuali di rilievo anche al Sud, diventando per la prima volta “partito nazionale”.
Il M5S si è invece caratterizzato, grazie al ‘reddito di cittadinanza’ come “partito sudista”, facendo man bassa di voti in tutto il Meridione e nelle Isole; mantenendo comunque anche al Nord posizioni di seconda-terza forza. L'afflusso più cospicuo di voti i grillini lo ottengono vuoi dalle leve dei neo-elettori, vuoi da un cospicuo “travaso” operato ai danni del PD.
Il confluire di vasti consensi di proletari nelle liste M5S e Lega ha rinforzato la tendenza a far credere che non esista più la “classe operaia”, ma semplicemente “gli operai”.
Questi ultimi, votando per la “destra” o, per meglio dire, su temi certamente non di “sinistra” (immigrazione, tasse, sicurezza...“prima gli italiani”) avrebbero coi fatti smentito l'appartenenza ad idee che sarebbero ormai retaggio del passato. Lo stesso Di Maio, ad urne ancora calde, ha dichiarato solennemente che gli italiani avrebbero superato col loro voto il dilemma storico “o con la destra o con la sinistra”.
Cerchiamo di distinguere il vero dal falso di una simile ideologia e vedere cosa comporta.
C'è di vero che – a differenza di qualche decennio fa – oggi i proletari non hanno più al loro interno un neppur minimo “cemento ideologico” riconducibile in qualche modo al “comunismo”, al “socialismo”, ai “partiti operai” e cose del genere. Tabula rasa. Se dal versante borghese possiamo rilevare una “crisi profonda” di tutta la socialdemocrazia europea, dal punto di vista dei suoi agganci sociali, dal punto di vista operaio, possiamo ritenere conclusa la lunga fase della sua influenza. Con lo stalinismo morto da un pezzo, il movimento operaio perde così i tradizionali, e falsi, punti storici “di riferimento”. Terreno libero per i rivoluzionari? Per certi versi lo sarebbe (fine dei miti “statalisti” spacciati per “socialisti”), ma la strada è quasi tutta in salita, e da spianare: dal momento che il retaggio ideologico, distorto quanto si vuole, qualcosa pur conta. Ed in politica il vuoto non esiste.
Se è vero che è ormai venuta meno la coscienza dei lavoratori di appartenere a una classe con interessi comuni, tuttavia le classi non sono scomparse, anzi la classe lavoratrice non è mai stata così numerosa e diffusa in tutto il mondo, e anche da noi è divenuta più marcata la divisione di classe, con i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri e sfruttati.
Siamo di fronte non alla scomparsa della classe operaia, ma agli effetti della sua sconfitta sociale e politica, alla sua sottomissione nei confronti del capitale. Seppur, anche qui, sarebbe un grave errore trarre delle conclusioni di non-contraddizione o, peggio, di smobilitazione.
L'ideologia della “fine della classe” offre ai comunisti un'ottima occasione per dimostrare – in primo luogo coi fatti – che invece la classe sfruttata esiste e che bisogna farci i conti.
Infatti, se noi scendiamo un po' più a fondo dentro le dinamiche del “rancore sociale” delle larghe masse, possiamo relativizzare quell'aspetto “reazionario e di destra” che ad un primo impatto appare così pervasivo ed univoco.
Lo stesso voto è stato anche una protesta della classe operaia, ma dando credito a soluzioni illusorie. È mancata una lotta a fondo contro la riforma Fornero, ora si pensa di toglierla con un voto; i sindacati non organizzano lotte per il recupero del salario, ci si illude di ottenerlo con la flat tax; lo stesso soprattutto al Sud dove la disoccupazione è doppia rispetto al Nord, il punto del “reddito di cittadinanza”...che sarebbe la traduzione interclassista e clientelare del salario minimo garantito.
Si tratta di un disagio “reale” il quale, non esprimendosi nelle lotte, si “rifugia” nel voto, oltre che ovviamente nell'astensione.
E allora, dal momento che siamo emancipati dalla fandonia secondo cui “la sinistra deve riappropriarsi dei suoi obbiettivi” (che lasciamo al trio Grasso-Boldrini-Bersani), occorre però ricompattare le forze per trasformare in movimento anticapitalista una simile contraddizione sociale e politica.
Anche l'astensionismo evidenzia un distacco sempre più grande di consistenti settori popolari (proletariato e piccola borghesia) dalle promesse dei vari partiti borghesi, compresi quelli che si presentano come nuovi e alternativi. Del tutto inadeguato ci sembra però l'atteggiamento di quei comunisti che si contentano di registrare questo distacco come un fatto positivo perché rallenta la presa dell'ideologia dominante sulla classe lavoratrice. Noi al contrario riteniamo che se tale astensionismo non si trasforma in militanza nelle organizzazioni proletarie, in presa di coscienza (che può essere favorita soprattutto attraverso la lotta) diventa un gioco facile per la classe dominante assorbire il segnale di delegittimazione da esso rappresentato. Del resto i paesi anglosassoni non convivono forse da decenni con tassi di astensionismo elevatissimi senza che il sistema capitalistico di quei paesi abbia avuto troppo a soffrirne?
Siamo probabilmente di fronte ad una stagione di innalzamento della tensione politica.
Governo o non governo. Elezioni anticipate sì, elezioni anticipate no.
Apparentemente la situazione sembra “ingessata” tra due schieramenti (M5S e Centro-Destra) che da soli non hanno la maggioranza per governare, a fronte di un Centro-Sinistra ridotto ai minimi termini ed alle prese con le convulsioni interne del PD.
Ma siamo solo agli inizi del “ribaltone”, e viviamo in un paese maestro nei trasformismi. Del resto, le recenti vicende politiche della Germania, che ha sicuramente un'altra storia, ci fanno meglio capire quanto conti il “mai” sulla bocca dei politici borghesi...
Ciò che ci preme sottolineare è invece un altro aspetto: la necessità per i rivoluzionari di alzare il livello dell'analisi politica e dell'intervento politico.
Le “aspettative” riversate sulle formazioni “populiste” possono e devono secondo noi diventare delle opportunità concrete per mettere in luce, e non solo sul versante della propaganda, l'inconciliabilità tra il capitalismo e le ventilate prospettive di “benessere”, “sicurezza”, “equa redistribuzione”. L'inconciliabilità tra profitto e futuro, soprattutto per le nuove generazioni.
Serve dunque non solo rintuzzare le ventate “xenofobe” e “razziste” della “guerra tra poveri”, le rinascenze fasciste, le politiche securitarie e repressive, ma diventare soggetti attivi, visibili, promotori di organizzazioni indipendenti degli sfruttati. Per costruire “sul terreno” alternative politiche di classe.
Tale necessità è resa ancora di più impellente dal “contesto” internazionale che ci circonda.
Il prevalere, anche in Italia, di tendenze politiche se non apertamente “euroscettiche” perlomeno di “ricontrattazione” dei parametri U.E. potrebbe aumentare anche le tensioni “esterne”, con evidenti ricadute nel paese. Per ora l'atteggiamento di Bruxelles sugli esiti del voto è cauto ed altalenante; ma potrebbero configurarsi nuove campagne imperialiste in cui i rivoluzionari dovrebbero avere la capacità di contrapporsi nettamente sia alle opzioni “europeiste”, sia a quelle “sovraniste” (con queste ultime non più relegate in ambito minoritario).
Tutto ciò mentre in Cina si celebra l’apoteosi del nuovo imperatore Xi Jinping, col compito di guidare la Cina a divenire prima potenza mondiale: le scosse telluriche saranno di grande magnitudine. E mentre i venti protezionisti che giungono dagli USA coi dazi su acciaio e alluminio, e altro ancora, e il rafforzamento dell’unilateralismo con la sostituzione di Tillerson con Mike Pompeo, potranno accrescere non solo le tensioni tra le potenze, ma anche aizzare il nazionalismo in ogni paese, soprattutto tra i lavoratori (non a caso Trump ha presentato i dazi alla presenza delle tute blu). Se il protezionismo è economicamente perdente, la scelta dell’indipendenza nella metallurgia ha un forte sapore militare.
Pesa anche l’indifferenza che si respira, anche a sinistra, per i massacri che continuano in Siria, nel Ghouta orientale come ad Afrin, e per le crescenti mosse militari italiane in Africa.
Per la sinistra rivoluzionaria la scommessa è di non rinchiudersi nella “sindrome da sconfitta”.
Le elezioni hanno messo in evidenza aspetti “contraddittori” tra le masse di cui tener conto. Gli spazi di intervento non si riducono. Il problema rimane come occuparli.
Pensiamo si possa fare ciò non solo con l'intervento “sindacale” in senso radicale ed anti-concertativo, cosa di per sé imprescindibile. Ma anche attivando lotte territoriali, associazionismo proletario ed aggregazione politica comunista, in grado di coinvolgere importanti settori di classe altrimenti lasciati o nel dimenticatoio, oppure preda delle più retrive pulsioni borghesi.
Non ci dimentichiamo certo che un elettore su tre comunque non vota, e che tale tendenza, ancora in crescita, assume spesso una chiara connotazione sociale proletaria.
Però l'esperienza ci ha mostrato come l'astensionismo di per sé non faciliti affatto il radicamento dei rivoluzionari, se non è accompagnato dalla lotta e dall'organizzazione.
Una lotta ed una organizzazione non da declamare, ma da gettare sul terreno della costruzione di una solida opposizione anticapitalista. Il prossimo Primo Maggio è un’occasione per riunire le forze disperse del “movimento reale” proletario.