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N°43 Pagine Marxiste - Luglio 2017
LA LOTTA PER IL PARTITO: NO AL MOVIMENTISMO, NO AL SETTARISMO



Uno dei più preziosi insegnamenti di Lenin è riconducibile al lavoro svolto a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, quando egli si forma come dirigente politico rivoluzionario studiando a fondo lo sviluppo del capitalismo in Russia (in polemica coi populisti, quelli veri) e la dinamica degli scioperi nelle fabbriche (in polemica con gli economicisti).
Su quest'ultimo argomento Lenin analizza minuziosamente quantità e qualità degli scioperi, stilando tabelle su tabelle, e facendo emergere – non dai “vorrei” ma dai dati obbiettivi – diversi fenomeni indicativi della crescita della coscienza politica della classe operaia russa (riscontrabile ad esempio nell'astensione dal lavoro non solo per aumenti salariali, ma soprattutto come protesta contro le multe ed i licenziamenti, usati dai padroni come arma di dissuasione e di rappresaglia).
Questo richiamo lo facciamo per ricordare che quando si parla di lotta proletaria oggi in Italia non bisogna dimenticare di partire dai dati obbiettivi e dallo studio scientifico sul numero degli scioperi, sul numero degli scioperanti, sulla durata degli scioperi, sull'intensità degli scioperi, sulle forme di lotta, sui settori investiti dagli scioperi, sugli esiti degli scioperi, sul rapporto scioperanti/iscritti ai sindacati e così via...
Oggi come oggi uno studio in merito è alquanto problematico, perché sono almeno sette anni che l'ISTAT non pubblica più i dati sugli scioperi in Italia, in quanto ahimè il fenomeno è diventato irrisorio; diremmo irrilevante dal punto di vista delle analisi degli stessi economisti borghesi.
Comunque, anche fermandoci al 2010, quando già la crisi aveva prodotto chiusure a raffica di aziende e connessi, possiamo senza ombra di dubbio valutare l'attuale ciclo di lotte in Italia (ma per certi versi in tutta l'Europa Occidentale, Francia esclusa grazie alle agitazioni della primavera 2016, che però hanno interessato solo un paio di categorie di lavoratori oltre agli studenti) come il più basso mai conosciuto nella storia del movimento operaio.
La cosa non è secondaria – e solo fino ad un certo punto possiamo “consolarci” con quanto avviene tra i lavoratori dei paesi a nuova industrializzazione – perché stiamo parlando pur sempre di un'area che era e rimane un ganglio vitale dell'imperialismo mondiale, una “fortezza” del capitale internazionale.
Da qui sono nati il pensiero socialista, il marxismo, le organizzazioni e le rivoluzioni proletarie.
Da qui toccherà non certo “dirigere” la rivoluzione mondiale (sarebbe peccare di un eurocentrismo assolutamente non auspicabile e pure fuori luogo), ma certamente dare un grosso contributo ad essa. Ai proletari mediorientali, a quelli dell'Asia ed a quelli del Brasile (protagonisti questi ultimi del grande sciopero generale del 28 aprile) non parrebbe vero che dagli operai dalla vecchia Europa arrivassero altri segnali che non i soli messaggi di solidarietà...
In estrema sintesi, dal punto di vista delle lotte proletarie di fabbrica o di azienda, potremmo definire il decennio di crisi che ci lasciamo alle spalle come un decennio di ulteriore e definitiva DEMOLIZIONE di quanto conquistato negli anni '60 e '70. Demolizione dei diritti dentro e fuori i luoghi di lavoro, demolizione dei salari, demolizione di decine di migliaia di posti di lavoro non rimpiazzati o rimpiazzati col nero, emersione di una disoccupazione strutturale giovanile di massa, pur con tutte le differenze geografiche e con il ruolo non indifferente del Welfare familiare come “ammortizzatore sociale”.
Dentro un paese invecchiato ed una forza lavoro dispersa, le fabbriche sono state isolate e colpite una ad una, con la compartecipazione remunerata dei sindacati di Stato, senza che si producessero significative “resistenze” operaie. O lo smantellamento ha spazzato via tutto coprendo le macerie dietro mai rispettati “piani di reindustrializzazione” e/o la camera a gas degli ammortizzatori sociali; oppure, una volta “riassestata” l'azienda, si è puntato su il folle innalzamento della produttività interna, “oliando” adeguatamente la manodopera rimasta con opportuni “accordi aziendali”. Accordi che puntano ad incrementare la divisione tra lavoratori e la discriminazione verso le “nuove leve” di precariato. Oppure ancora, si è operato un mix tra queste due opzioni.
Un esempio concreto fra i tanti: all'Italcementi di Bergamo i circa 200 esuberi di personale impiegatizio, dopo una vomitevole pantomima di “lotta” da parte dei Confederali (presente tutto il putridume istituzionale), sono stati liquidati circa un anno fa pagando “l'incentivo all'esodo” di 85.000 euro lordi a testa.
Stando sempre nella bergamasca, provincia manifatturiera di “eccellenza”, proiettata decisamente verso l'export, alla Tenaris di Dalmine (BG), dopo i tagli degli anni scorsi ed il “contratto di solidarietà”, si è scambiata due mesi or sono ulteriore flessibilità tra reparti con una manciata di assunzioni e con un premio “ad personam” introdotto all'uopo per dividere le maestranze e impedire risposte collettive. Su questo la FIM-CISL è prima della classe; al punto che, circa un mese fa, alla Lucchini di Lovere (BG), la più grande azienda meccanica della provincia, essa ha riguadagnato il primato all'elezione delle R.S.U. aziendali.
“Il Sole 24 Ore” del 30 aprile vanta una diffusione capillare, anche tra le PMI, del “Welfare Aziendale”, il quale porterebbe con sé “maggiore competitività” (Esattamente: 4.641 contratti che prevedono Welfare sui 20.908 depositati al maggio 2016).
Comunque, il fatto principale è che la paura, la rassegnazione, la mancanza pluridecennale delle tradizioni di lotta la fanno da padrone, alle quali va aggiunto uno scarso ricambio generazionale della forza-lavoro... E dunque il problema per noi non può evidentemente limitarsi alla (sacrosanta) denuncia dei sindacati collaborazionisti “cinici e bari”. C'è un enorme problema di PASSIVITA' SOCIALE che impedisce il prodursi di fenomeni di “reazione spontanea” da parte della classe nel suo insieme. Non che “nulla si muove”, perché qualcosa comunque “eppur si muove”, direbbe Galileo. E non vogliamo certo aprire una ridicola discussione tra “pessimisti” ed “ottimisti” in merito alle lotte operaie.
La questione sta però nel dimensionare e valutare il più esattamente possibile il “chi” ed il “come”, senza scambiare i nostri desideri per realtà.
Una volta “immettevi” il militante politico in fabbrica con lo scopo di creare il gruppo operaio, facendoti forte di un certo “ribellismo” operaio. Oggi non è più così. I Confederali menano la danza non perché “sono forti”. Non sono mai stati così deboli e screditati dal punto di vista degli iscritti e della “considerazione” di massa. Hanno però l'appoggio smaccato di Stato ed aziende. E marciano dentro l'immobilismo ed il conservatorismo diffuso nella maggioranza dei lavoratori.
Abbiamo macinato una certa quantità di casi di dismissioni aziendali tra la provincia di Bergamo e quella di Milano: non si va più in là di presidi che si protraggono magari nel tempo ... ma non perché la lotta s'indurisce, bensì perché ci si affida sempre di più agli interventi “esterni” (istituzioni, padroni “illuminati”), non ponendosi neanche, se non in rarissimi casi, l'obbiettivo di collegarsi con altre fabbriche, di allargare la lotta, di radicalizzarla.
Detto delle fabbriche, la situazione non diventa esaltante nel Pubblico Impiego.
Il fronte ospedaliero tace, seppur sia diventato un luogo “privilegiato” di super-sfruttamento e di invalidamento del personale ivi impiegato. La scuola, dopo la “fiammata” contro la “Buona-Scuola” di Renzi dello scorso anno, è rientrata nei ranghi.
Solo il settore dei Trasporti batte qualche colpo, seppur sparso nei luoghi e nel tempo. I ferrovieri hanno recentemente condotto degli scioperi, seppur dentro una realtà sindacale che dire “polverizzata” è dir poco. Con logiche da camarille burocratiche che hanno investito in pieno un “sindacato di base” come la CUB-Trasporti.
La stessa vicenda Alitalia, che ci riempie di soddisfazione, e che rappresenta comunque un segnale importante proveniente da un settore tradizionalmente di “aristocrazia salariale”, va valutata dentro un quadro sindacale e politico che potrebbe travolgere - lasciata la vertenza a sé stessa - quelle potenzialità di lotta espresse nel vigoroso “NO” al referendum della liquidazione e del ricatto, presentato di concerto da Governo e Confederali.
L'esito dello sciopero del 16 giugno, indetto dalle sigle sindacali conflittuali proprio all'interno di queste categorie, oltre alla Logistica, è certamente un segnale importante ed in controtendenza che va raccolto ed ampliato. Ma gli stessi promotori di questa azione di lotta congiunta, che ha fatto andare su tutte le furie governo, partiti parlamentari e mass-media, sanno benissimo che la strada da percorrere è ancora lunga e tortuosa.
Stando nel settore della Logistica, potremmo dire che SICobas raccoglie con la mobilitazione congiunta del 16 giugno i frutti di un decennio di lotte “controcorrente”, spesso non supportate o poco supportate da altre sigle sindacali, che pure hanno scritto nel loro programma la difesa coerente della condizione operaia, e raccolgono al loro interno nuclei importanti di attivisti e di militanti di classe.
Ad ogni modo, seppur toccando segmenti minoritari della classe, è stata reintrodotta in Italia la prassi del sindacalismo conflittuale basato sul rapporto diretto coi lavoratori e sulla solidarietà attiva. Un cosa enorme, che ha già avuto delle “ricadute” positive, ed altre ancora maggiori potrà averne sul medio-lungo periodo... Intanto, già da ora, è assolutamente da valorizzare l'irradiazione di questo sindacato nelle logistiche, nell'industria delle carni ed anche nelle campagne, pur con tutti i problemi di “percorso” che non stiamo qui a toccare.
L'esperienza del SICobas ha fatto da spartiacque tra la lotta vera e la caricatura della lotta, cosa che ha investito nel corso degli anni gran parte dello stesso “sindacalismo di base”. Quest'ultimo, infatti, ha teso a riprodurre se non logiche consociative (vedi USB sulla Rappresentanza), una prassi “scadenziaria” e “settaria” che contribuisce a perpetuare l'esistenza del sindacalismo colluso e venduto. Non a caso, le recenti spaccature nella CUB, ad esempio, sono avvenute nella misura in cui spezzoni combattivi di questo sindacato non ci stanno alla riproduzione del “tran-tran” di memoria confederale, anche di fronte ad esplosioni di “bolle occupazionali” come quella dell'Alitalia.
Col 16 giugno tale andazzo è stato finalmente rotto; e noi ci auguriamo in maniera definitiva.
Dunque, la logica della lotta di classe, dove parzialmente ed anche timidamente fa capolino, impone di scendere sul terreno che il SICobas pratica da anni, ottenendo risultati in contro-tendenza rispetto all'andamento generale della classe.
Il che non vuol dire che tutto ciò non crei problemi di “sviluppo” (su cui ci soffermeremo in seguito); così come non vuol dire che sia possibile applicare a tutti i settori lavorativi, con la carta carbone, il modus operandi del SICobas. La corruzione totale dei confederali e la deriva di una parte del sindacalismo di “base” possono essere meglio inquadrate se si analizza, anche sommariamente, in che maniera è mutato in questi decenni il rapporto economia/politica, imprese/capitale/Stato.
L'internazionalizzazione dell'economia, la sfrenata concorrenza, l'innalzamento vertiginoso della produttività, la razionalizzazione e l'interdipendenza dei processi produttivi e commerciali, hanno ridotto ai minimi termini il “margine” entro il quale è possibile attuare “mediazioni” tra capitale e lavoro salariato.
In tale contesto, lo Stato interviene con modalità “regolatrici” che tolgono di mezzo la “redistribuzione” del reddito di socialdemocratica memoria per far emergere in prima battuta un “rigido controllo” dei lavoratori (con pratiche consociative attraverso i sindacati istituzionali) e subito dopo, qualora tutto ciò non bastasse, la repressione poliziesca diretta.
Per non dire del ruolo della magistratura: la quale in contemporanea rispolvera codici fascisti ed applica con zelo decreti “democratici” (vedi Minniti). Il tutto condito da canee mass-mediatiche contro le “teste calde” che osano ribellarsi...
Ma cadremmo nell'oggettivismo se non considerassimo che tale parallelogramma di forze dà questa risultante anche perché viene a mancare l'azione attiva e indipendente del soggetto proletario nel suo insieme. Un soggetto poco e male organizzato sindacalmente, e mancante totalmente di un riferimento politico aggregante, degno di tal nome. Sembra una contraddizione, ma in realtà lo spropositato spiegamento degli apparati repressivi di Stato di fronte ad agitazioni “semplicemente” rivendicative come ad es. quelle dei facchini (ma il discorso potrebbe essere esteso anche a chi pratica le lotte sulla casa) dimostra che la lotta, quella vera, nell'attuale contesto capitalistico, per quanto circoscritta essa possa essere, fa emergere quanto segue:
1) una incidenza mai vista dello sciopero di una singola azienda - o di un gruppo di aziende - sull'intera filiera produttiva/distributiva;
2) ergo una scarsa “tollerabilità” del sistema a fronte di agitazioni che escano dal puro “evento dimostrativo” e mettano sul tappeto i rapporti di forza tra le classi;
3) il doversi far carico da parte del soggetto promotore della lotta (in questo caso il sindacato a direzione classista) di “compiti politici” che sono ben altra cosa delle “compatibilità riformiste di sistema” o, peggio, degli “inciuci” concertativi che hanno spadroneggiato per un ventennio.
Compiti politici che, però, pur incrociandosi con quelli propri di una organizzazione POLITICA di classe, non possono svolgere funzioni di “supplenza” rispetto ad essa.
Rimane sempre la distinzione (anzi per certi aspetti essa viene potenziata) tra organismi di lotta “immediata”, che devono guidare masse lavoratrici al di là delle loro opinioni politiche, cercando di portare a casa qualcosa di “concreto” e vedendo nello scontro “economico” col capitale, per radicale che sia, un “punto di arrivo”; ed organismi di lotta “strategica”, di prospettiva, che vivono per abbattere il capitale e per attrezzare la parte migliore dei proletari, i comunisti appunto, ai compiti precipui dell'organizzazione-direzione-gestione di un processo rivoluzionario internazionale.
Tutte cose, queste ultime, che implicano un addestramento di “lungo corso”, specifico, particolareggiato, multifunzionale che solo un organismo esplicitamente politico può garantire. Un organismo di quadri che sappia lavorare tra le masse, che attinga da esse, che si confronti con esse, ma che NON SI CONFONDA con esse.
E ciò è vero anche oggi, qui in Italia anno 2017, dove un partito rivoluzionario ancora non esiste, e qualche compagno può pensare che sia utile far “coincidere” sindacato e partito per far sì che il processo di costruzione del partito sia il “più inclusivo possibile” a livello di massa, e possa essere in qualche maniera “più genuino” rispetto alle tristemente note chiesuole “marx-leniniste”...
In fondo, il nodo epocale che le varie correnti marxiste, in un secolo di esperienze, non sono riuscite a sciogliere nella pratica, dopo l'Ottobre russo (comunista, internazionalista, ma tatticamente ed anche strategicamente da attualizzare), è consistito nel non saper coniugare la “teoria” col movimento, i programmi con le dinamiche di classe, i quadri con le masse, l'immediato con la prospettiva ... modificando in corso d'opera certi “schemi” che la stessa diffusione del capitalismo nel mondo poneva su un diverso terreno.
Ci riferiamo in particolare alla questione contadina ed alla questione coloniale. Per non parlare della modificazione di classe intervenuta a seguito della cosiddetta “terziarizzazione” delle metropoli imperialiste, nonché dello spostamento del bacino di sviluppo dall'Occidente all'Asia ed all'Africa.
Se è vero, dunque, che il sindacato a direzione classista oggi assume “compiti politici” che in passato non aveva, se è vero che non è pensabile, nelle condizioni date, dividere con l'accetta “lotta economica” da “lotta politica”, è altrettanto vero, secondo noi, che non per questo si possa ritenere di costruire il partito “politicizzando” a più non posso il sindacato.
Anche perché bisogna bene intendersi su cosa significa “fare politica”. Non confondere la “propaganda politica” o l'“agitazione politica” col “fare politica”.
Se diamo tutti per buona la sintesi leninista del “Che Fare?” in base alla quale la coscienza politica dell'operaio è la coscienza dei suoi rapporti non solo col padrone, e neppure coi padroni, ma dei suoi rapporti con tutte le classi sociali e con lo Stato borghese (e aggiungiamoci pure con TUTTI gli Stati borghesi del mondo), è evidente che per arrivare a ciò in maniera non illuministica o puramente declamatoria è necessario che l'operaio faccia esperienza di tali opprimenti rapporti. Come?
Aspettando che tutto il mondo gli crolli addosso e che ci sia il sollevamento simultaneo del proletariato mondiale? Puro avvenirismo.
Facendolo emergere dalla solidarietà allargata delle lotte di fabbrica? Va già meglio, ma è ancora troppo poco. Ed è facilmente “risucchiabile” dagli alti e bassi della lotta stessa; e facilmente fraintendibile con: comunismo=più salario. In fondo è questo il limite che emerge dall'attività politica che il SICobas ha pur provato a svolgere finora su decine di quadri emersi dalle lotte di questi anni.
Attività politica comunista è fondamentalmente spostare degli uomini – e non episodicamente – sul terreno dei principi, della strategia, della tattica, e dell'organizzazione comunista.
Spostarli come individui e come gruppi; fargli prendere posizione su questo o quel fatto inerente TUTTA LA RETE DELLE RELAZIONI SOCIALI E POLITICHE; farli interagire in questa attività; formarli nella loro capacità di rivolgersi a, e di dirigere persone che non siano solamente i loro compagni di lavoro, e su temi che non riguardino solamente “questioni di lavoro”.
E' ovvio che i rapporti diretti di sfruttamento siano un terreno privilegiato di elaborazione e formazione. Ma non è l'unico; e non dobbiamo pensare che passando da quella scuola il problema dei quadri sia risolto.
Chiaramente questo processo di “trasmissione” non procede da un vertice di “Unti del Signore” ad una base di sprovveduti; o detto in altri termini: tradeunionisti.
Questa fase è definitivamente e fortunatamente superata. Intendiamoci: non è superato il tradeunionismo, quanto l'idea che l'operaio non possa andare oltre di esso senza l'ausilio degli “intellettuali” di partito.
Chiaramente questo processo di “trasmissione” non procede da un vertice di “Unti del Signore” ad una base di sprovveduti; o detto in altri termini: tradeunionisti.
Questa fase è definitivamente e fortunatamente superata. Intendiamoci: non è superato il tradeunionismo, quanto l'idea che l'operaio non possa andare oltre di esso senza l'ausilio degli “intellettuali” di partito.
E questo non tanto per effetto della “scolarità di massa”, che pur ha il suo peso. Quanto per il fatto (che dobbiamo ritenere acquisizione di un secolo di lotte di classe) secondo cui, oggi più di ieri, “o il proletariato si emancipa ad opera di sé stesso, o non si emancipa.” (Marx)
Dove il “sé stesso” non è e non può essere SOLO il partito, che si approprierebbe così indebitamente dell'esclusività della rappresentanza storica della classe sotto le vesti di un malinteso “primato scientifico” (=infallibilità).
Una simile conclusione pensiamo che la si possa mettere agli atti; ed è precisamente nella visione del PARTITO-DEMIURGO che secondo noi sono inciampate, con accenti e storie diverse, sia le correnti trotskyste che quelle bordighiste, nelle loro varie accezioni.
Partiti - o meglio partitini - che in Italia, dopo il biennio rivoluzionario 1919-'21, non sono mai stati in grado di intercettare segmenti significativi della classe. Ci fossero o no le lotte, ci fosse o no il “movimento”. E ridurre tutto alla controrivoluzione imperante, al “barbaro nemico” sovrastante, al ciclo, ai cicli metastorici è operazione infantile. Si finisce per rinchiudersi in un oggettivismo, oppure in un giustificazionismo (tra l'altro rissosi), che lasciano dietro di sé solo macerie su macerie.
Se però il partito non dev'essere “partito-demiurgo”, è altrettanto vero che non dev'essere neppure PARTITO-IBRIDO: metà sindacato-metà partito. Un sindacato che fa il partito, o viceversa.
Concepire il sindacato (stiamo sempre parlando del sindacato classista ovviamente) come la classica “cinghia di trasmissione” alla rovescia, vuol dire sostituire alla concezione del partito-demiurgo quella del sindacato-demiurgo... più vicina ad una visione anarco-sindacalista che marxista.
Il sindacato/ i sindacati di classe, organizza/no e difende/no coerentemente e radicalmente gli interessi immediati delle larghe masse lavoratrici contro lo sfruttamento; e lo fa/fanno applicando la democrazia operaia al suo/loro interno, allargando le sue/loro radici a tutti i comparti di classe, perseguendo una strategia di “non compatibilità” col capitalismo. Costruendo, in poche parole, “ONE BIG UNION” plurale e combattiva.
Ma senza illudersi ed illudere che da ciò possa partire il rovesciamento dei rapporti di produzione borghesi. Essi potranno essere divelti solo in presenza di una situazione rivoluzionaria, in cui sarà decisivo il concorso “eversivo”, ai vari livelli di “competenza”, tra partito/partiti rivoluzionario/i, comitati autorganizzati, sindacati di classe.
“Situazione rivoluzionaria” che non va “invocata”, ma preparata per ciò che ci può competere.
Dentro questo canovaccio di un rapporto dialettico tra organizzazione “immediata” di classe e organizzazione politica comunista è possibile secondo noi ragionare sulla ricostruzione in Italia di un partito rivoluzionario, a quasi cento anni dalla nascita del PCd'I: l'ultimo partito comunista degno di questo nome che abbiamo avuto (la si pensi come si vuole sulla linea politica della sua prima Dirigenza).
Siamo consci che sarebbe puro “organizzativismo” cercare di tradurre in organismi partitici, oggi, nelle condizioni date, la scarsa o nulla presa politica sulla classe che caratterizza gran parte della sinistra rivoluzionaria. Siamo però allo stesso tempo convinti che non si può fare della questione “partito” un eterno rimando a “tempi migliori”, e non cominciare mai a porsi - partendo da quel poco che si ha - il problema concreto di iniziare DA SUBITO una attività politica indirizzata, organizzata, minimamente strutturata, in grado di definire delle responsabilità, delle competenze, dei momenti di iniziativa e di confronto comuni.
Una attività non “a latere” delle più importanti vertenze sindacali in atto, ma ben dentro ad esse (anche se non solo: lotte sulla casa, territoriali, scuole, punti aggregativi di giovani non vanno messi in disparte); tenendo però presente la SPECIFICITA' del lavoro che si svolge, e l'impegno specifico che richiede.
Il ruolo di questa “Tendenza” che vogliamo costruire sarebbe per noi esattamente questo, una volta aver ovviamente dato un contenuto politico-programmatico comune al tipo di attività sunnominato.
Non si tratta di ripartire dall'anno zero, così come non si tratta di fare un minestrone di “correnti” per arrivare a chissà quale gustosa pietanza. La politica è schierarsi, prendere posizione e sostenerla, cercare di farla avanzare tra gli sfruttati organizzandole attorno dei nuclei agguerriti e coscienti.
Una volta stabiliti gli assi portanti di questa politica comunista, qui ed ora, e non guardando continuamente indietro alle bagarre tra rivoluzionari del secolo scorso, si potrà definire NELLA PRATICA, CAMMIN FACENDO, una migliore sistemazione teorica della stessa organizzazione politica comunista.
La teoria è la bussola del movimento, è quella che ci dà la rotta; ma per non ricadere nell'errore di voler “piegare comunque la realtà alla teoria” (= disastro per i comunisti), occorre rimettere la teoria coi piedi per terra, farla camminare col movimento reale, senza con questo metterla ALLA CODA di esso (altro insegnamento di Lenin).
Ci vogliono dunque compagni che si occupino di tali questioni NON A TEMPO PERSO, o tra un picchetto e l'altro, tra una manifestazione e l'altra, ma che dedichino gran parte del loro tempo, a suscitare il “politico” dalle lotte, a coordinarlo, a finalizzarlo, ad organizzarlo.
Compagni che, tra l'altro, come abbiamo accennato prima, NON SI OCCUPINO SOLO E NEPPURE PRINCIPALMENTE DELLE LOTTE “SINDACALI”.
Se siamo d'accordo con Lenin che lo scioperante non è di per se stesso un comunista, neppure “in pectore” (anche se egli è sicuramente un operaio più avanzato, la pensi come vuole sul mondo, di un operaio passivo), ci poniamo già nelle condizioni di muovere qualche compagno ad una attività politica di “Tendenza”.
Se invece noi pensiamo che la “Tendenza”, una volta nata e “curata” anche nei particolari, sia in grado per “moto proprio” di irradiarsi nelle lotte ed avere per questo un ritorno politico utile al partito, rifaremmo in gran parte gli errori di quelle correnti internazionaliste che credevano sufficiente “accompagnare”, “consigliare” il movimento piuttosto che dirigerlo.
Ci perderemmo dietro ai mille rivoli di un “movimento” che è sicuramente prodotto genuino della classe e non delle “segreterie di partito”, ma che non sarà mai in grado di compiere quella “ricomposizione di classe” che è tale solo nella misura in cui - oggi – essa è in grado di porre all'ordine del giorno la questione di una lotta politica di lunga durata (e organizzata), finalizzata a contrastare il sistema capitalistico nel suo complesso. E ad abbatterlo.







Graziano Giusti

Pubblicato su: 2017-07-14 (1068 letture)

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