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N°41 Pagine Marxiste - Dicembre 2016
Lutti nostri. Ricordando Fulvio dal Bò

Conobbi Fulvio dal Bò all’inizio del 2000. Ricevetti una chiamata al telefono di casa: “ciao, sono Fulvio dal Bò, redattore di «Inchiesta Operaia». Ho visto che ti sei abbonato. Volevo capire come hai conosciuto il nostro giornale”.

Gli raccontai che avevo trovato una copia del primo numero di “Inchiesta” a Firenze, dove mi recavo ogni mese per impaginare il giornale dei macchinisti delle Ferrovie: direttore responsabile Pio Baldelli, lo stesso di “Inchiesta”.


Quel titolo mi aveva incuriosito; nonostante a prima vista avesse dei riferimenti all’operaismo e all’autonomia degli anni ’70, in realtà affondava le proprie radici nello stesso Marx. Bastò leggerne gli articoli per capire che c’era qualcos’altro in comune tra la redazione ed il nuovo abbonato, oltre al nome del direttore responsabile, il che spinse entrambi a voler saperne di più.

Ci incontrammo alla mensa dei ferrovieri di Torino Porta Nuova dove riuscii (unica volta) in un’impresa davvero per pochi, offrirgli la cena: era un compagno dalla generosità inimmaginabile. Mi descrisse il percorso politico del loro gruppo redazionale, fatto di sacrifici e dedizione totale alla causa del comunismo rivoluzionario. Mi parlò della propria esperienza, 30 anni di militanza attiva tra volantinaggi, diffusioni nei quartieri operai, presidi ai cancelli delle fabbriche, interventi nelle assemblee, occupazione delle case; nel 1970 con pochi altri aveva fondato il circolo operaio di via Brà, il primo di “Lotta comunista” a Torino. Poi la svolta, all’inizio degli anni ’80, quando abbandonò “Lotta comunista”: fu uno dei primi ad intuirne ed interpretarne la deriva controrivoluzionaria, dove l’attivismo organizzativo mascherava una tattica sindacale e un intervento nella classe che avrebbero assunto negli anni connotati sempre più opportunisti e vergognosi.
Disse una frase in particolare, che quanto più veritiera non poteva essere: “Quelli di Lotta comunista potrebbero essere anche in mille in una fabbrica, e sia il padrone che i sindacalisti dormirebbero sonno tranquilli”.
Per questo rimase alquanto sorpreso dal fatto che, arrivato il mio turno, mi presentai come militante di quella organizzazione. Parlavo e mi ascoltava scrutandomi attentamente, in silenzio, alquanto sospettoso. Gli parlai in particolare dell’esperienza delle lotte extraconfederali tra i macchinisti nelle ferrovie, che ci aveva visti in prima linea. Bastò davvero poco perché ci trovassimo in sintonia perfetta, e se in lui avevo scoperto un compagno dalla passione inesauribile, ora era lui a dirmi di avere le stesse sensazioni su di me. Dalla discussione franca e senza ombre capivo di avere di fronte non solo un compagno, ma anche un amico di cui fidarmi ciecamente. Quando ci salutammo mi disse: “con loro [di “Lotta”, N.d.R.] non c’entri proprio nulla, stai tranquillo che tu lì dentro duri poco, tieni duro finché puoi ma vedrai che ci vedremo fuori, presto”.
Aveva ragione. Nell’estate del 2003 avvenne la nostra scissione da “Lotta comunista”, ma prima di quella data ci eravamo incontrati più volte a Torino. Ogni volta che arrivavo o partivo con un treno da Porta Nuova lui era là, al paraurti o in testa al treno, conosceva i miei turni meglio di me. Alla vigilia della scissione ci incontrammo per uno scambio di vedute tra i due gruppi, il loro di “Inchiesta” e il nostro costituendo di “Pagine”; loro avevano aperto il Circolo Operaio di Via Monte Albergian e l'Associazione "Inchiesta Operaia", noi avremmo inaugurato la nostra prima sede di Piazza Nigra a Milano.
Grazie a Fulvio conoscemmo gli scritti di Mansoor Hekmat, del Partito Comunista Operaio d'Iran e d'Iraq, cui lui aveva aderito non senza la solita immancabile dose di entusiasmo.
Il giorno in cui inaugurammo la nostra sede, intervenne a nome del suo gruppo. Inutile dirlo, salutò entusiasticamente la nostra esperienza. Il suo viaggio a Milano fu caratterizzato da una serie di salti al volo sui convogli e coincidenze fortuite; un qualcosa cui, non sapevo, avrei dovuto abituarmi in futuro. Ogni tanto gli appuntamenti saltavano, una volta perché intrappolato nel traffico, una volta per un parcheggio in doppia fila… e non erano scuse, era tutto vero, nulla di inventato. Lui era così, e a nessuno di noi venne mai in mente di arrabbiarsi, impossibile con un compagno come Fulvio. 
Ricordo una sera, sul tardi, quando alcuni nostri compagni subirono un’aggressione vigliacca da parte di “Lotta comunista”; feci una fatica maledetta, e non so come ci riuscii, a farlo desistere dal venire a Milano, era già in strada e si sarebbe fatto 150 km per regolare i conti, era furioso perché in quegli atti mafiosi riviveva frammenti della sua esperienza passata.
Ci vedemmo ancora, nelle sere torinesi. Venne varie volte a Milano ad incontrare diversi compagni per portare avanti un progetto politico comune. Aveva ben presente la necessità di lavorare per costruire un partito rivoluzionario che non fosse una setta ma avesse solide radici e traesse linfa vitale nella classe. Citiamo da un suo intervento del giugno 2005: “La classe operaia deve diventare “potenza tra le potenze”, altrimenti facciamo i generali senza soldati. Come già altre volte nella storia la marea rivoluzionaria rifluisce e lascia gli ossi di seppia sulla spiaggia: i gruppetti autoreferenziali testimoni del comunismo… Come diceva Lenin (II Congresso IC) il partito è la parte più avanzata della classe: deve saper guidare la classe, altrimenti sono chiacchiere. Il lavoro di “Inchiesta” è il tentativo di collegare tra loro gli operai, e richiede costanza e umiltà”
Due giorni prima di una di queste riunioni che avrebbe dovuto dare l’avvio a un nuovo percorso politico che superasse la frammentazione tra gruppetti, giunse la notizia terribile, cui ho tentato invano di rifiutare di credere, quasi a voler scansare la realtà. Come scrive Dante Lepore, “la sua vita politica è praticamente finita al momento in cui in Val di Susa, in Clarea, presso Chiomonte, nel 2005, ci incontrammo di presto mattino. Lui era di ritorno da una nottata di quelle brutte, famosa notte, in cui i “no TAV” avevano lottato per rimettere in piedi le staccionate dell’area attrezzata del popolo no TAV, devastata dalle forze di polizia che ormai da qualche lustro occupano quel territorio. Io e Fulvio ci salutammo, e notai il suo solito volto quando era provato e stanco, aggrottato, le mani a premere la fronte e le tempie, espressione di qualcosa di inspiegabile in un «cintura nera» di karate come lui. Qualche giorno dopo mi comunicarono che era ricoverato per aneurisma cerebrale. Lo salvarono dal coma, ma la sua vita da allora si è svolta sulla carrozzella, senza recupero delle sue enormi energie da sempre messe al servizio della causa di tutta l’umanità”.
Il 31 ottobre 2016, dopo 11 anni senza parola, il compagno Fulvio dal Bò è morto nella sua casa di Rivoli. Aveva 71 anni.
Il 2 novembre lo abbiamo salutato per l’ultima volta, a pugno chiuso, al cimitero di Caselle.
ALESSANDRO PELLEGATTA



 




Pubblicato su: 2016-12-31 (4954 letture)

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