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N°5 Pagine Marxiste - Novembre 2004
Classi e frazioni in Irak di fronte all'intervento degli imperialismi

La guerra americano-britannica contro l'Irak e la successiva occupazione insieme agli alleati, tra cui l'Italia, hanno scatenato nel paese occupato forze che prima erano compresse sotto la dittatura di Saddam Hussein, che per molto tempo ha goduto della complicità delle potenze regionali e mondiali. Non è detto che gli Stati Uniti pur con l'esercito più forte del mondo siano in grado di controllare queste forze, anche perché altri imperialismi, Francia, Germania e Russia in primis, sono pronti a utilizzarle per contendere agli USA e alla loro coalizione l'influenza sull'Irak e il Medio Oriente.

Fare chiarezza sulla natura delle lotte politiche e militari in corso in Irak e intorno all'Irak è un presupposto per poter assumere una chiara posizione internazionalista.


La parte più semplice è lo smascheramento delle motivazioni ufficiali della guerra: sono gli stessi documenti ufficiali americani a farlo. La guerra era per impedire che il governo irakeno producesse e usasse le armi di distruzione di massa? Il rapporto presentato il 6 ottobre al governo americano da Charles Duelfer, capo dell'Iraq Survey Group (ISG), ha totalmente smentito queste giustificazioni, accertando che l'Irak da anni aveva abbandonato, per mancanza di mezzi, i progetti per la produzione di armi di distruzione di massa (nucleari, chimiche e biologiche). Quelle addotte dai governi americano e britannico, e avallate dagli alleati tra cui il governo italiano, non erano che plateali menzogne, pretesti per giustificare una guerra che aveva ben altre motivazioni.
E la guerra che doveva "sconfiggere il terrorismo" ha fatto divampare, anche in risposta al terrorismo degli imperialismi occupanti, un grande incendio terroristico.
La guerra che doveva portare la pace per acclamazione ha suscitato un'accanita resistenza, che dopo un anno e mezzo appare tutt'altro che domata. Almeno una dozzina di città - per ammissione delle fonti ufficiali USA - restano fuori del controllo delle forze occupanti, che non esitano a bombardarne le zone abitate e quelle industriali, mietendo centinaia di vittime civili.

Le rappresentazioni mediatiche, col loro spettacolarismo e provincialismo nazionalistico (per cui coloro per i quali occorre commuoversi sono solo gli ostaggi italiani), con le semplificazioni sciiti/sunniti, pro-coalizione/terroristi, non permettono di comprendere quanto sta accadendo in Irak. La conoscenza della formazione delle classi e frazioni di classe, e delle loro espressioni politiche nella recente storia dell'Irak ci può permettere di andare più a fondo di questa apparenza.
La divisione sciiti/sunniti è semplicistica non solo perché essa si interseca con quella tra arabi e curdi, ma perché sia sciiti che sunniti, sia arabi che curdi sono a loro volta divisi in classi e frazioni: erano divisi nelle classi precapitalistiche sedentari coltivatori/ nomadi pastori, e si sono divisi nelle classi capitalistiche borghesia/proletariato sia nelle campagne che nelle città, cresciute irresistibilmente negli ultimi decenni a seguito di un imponente esodo contadino.
Prima i turchi ottomani, poi gli inglesi, quindi la monarchia formalmente indipendente (dal 1932), e infine le varie dittature militari e baathiste si sono appoggiati sulla, o sono state espressione prevalente della, componente arabo-sunnita della classe dominante, che demograficamente è minoritaria (circa un quarto della popolazione). I militari nazionalisti, divisi in panarabi (nasseriani tra la metà degli anni '50 e degli anni '60) e nazionalisti irakeni, hanno diretto la rivoluzione nazionale borghese del 1958, spezzando ogni rapporto di sudditanza verso l'imperialismo britannico e giungendo, nei primi anni '70, alla nazionalizzazione di tutta l'industria petrolifera. In questo modo la nascente borghesia arabo-sunnita acquisiva il controllo sulla principale fonte di plusvalore del paese, soprattutto a partire dagli anni '70 che vedono forti aumenti della rendita petrolifera: questo oltre a permettere di accumulare ingenti ricchezze anche private, costituiva il principale strumento di controllo politico sul paese, tramite la redistribuzione della rendita sotto forma di spesa statale (impieghi pubblici, grandi opere di costruzione, ecc.).
Con il rovesciamento del regime di Saddam Hussein e la successiva occupazione militare, la borghesia arabo-sunnita delle regioni centrali si vede sottrarre la propria posizione dominante. Dato che gran parte delle risorse petrolifere conosciute sono nel Nord curdo o rivendicato dai curdi, o nel Sud sciita, essa vede il pericolo di perdere per intero il controllo sulla rendita petrolifera, a vantaggio delle frazioni sciita e curda. Per questo settori consistenti della borghesia sunnita, del vecchio apparato statale, dei militari, della gerarchia baathista e del clero sunnita stanno resistendo accanitamente all'occupazione militare straniera e alla riorganizzazione dello Stato che gli americani vogliono imporre; essi mantengono il controllo di numerose città e ricorrono a metodi terroristici nella lotta contro gli occupanti e i collaborazionisti. Anche quando il loro obiettivo è effettivamente di liberare l'Irak dagli imperialismi stranieri, e non di contrattare con le armi il proprio ruolo nel futuro Stato, nella sostanza essi lottano per riconquistare una posizione di dominio e oppressione su curdi e sciiti. Altri settori della borghesia sunnita sono invece entrati nel governo provvisorio per non essere esclusi dalla spartizione del potere.

Curdi tra federalismo e separatismo

Completamente diversa la posizione della borghesia curda. I curdi, il 15-20% della popolazione, hanno prosperato nell'ultimo decennio grazie alla autonomia regionale di fatto imposta dagli USA a Saddam Hussein nel 1991 con l'imposizione della "no-fly zone" a nord del 36° parallelo, e alla quota dei proventi petroliferi garantita loro dai vincitori del 1991. Essi non vogliono rinunciare all'autonomia, e rivendicano anche la regione petrolifera di Kirkuk. Kirkuk, quarta città dell'Irak con 750 mila abitanti, venne arabizzata dal regime di Saddam Hussein con trasferimenti di massa di popolazione araba e l'espulsione di popolazione curda, turcomanna e assira allo scopo di assicurare alla borghesia arabo-sunnita il controllo sugli oltre 10 miliardi di barili di petrolio, che rimangono nei giacimenti che hanno prodotto da oltre sette decenni gran parte del petrolio irakeno. L'irredentismo curdo nei confronti di Kirkuk va a rafforzare il movimento separatista curdo, che all'inizio di ottobre ha organizzato manifestazioni per un referendum sull'indipendenza, con Kirkuk capitale.
Il presidente del governo provvisorio irakeno, Ghazi al-Yawar, ha accusato di "tradimento nazionale" il movimento per il referendum, dichiarando che il suo governo si opporrà a quelle rivendicazioni con tutti i mezzi di cui dispone. Ma lo stesso primo ministro curdo, Nechivan Barzani, ha dichiarato che su Kirkuk nessun compromesso è possibile.
La questione Kirkuk potrebbe far esplodere non solo un secondo fronte di guerra civile, ma anche la più grande polveriera mediorientale. I governi della Turchia, della Siria e dell'Iran hanno infatti posto il veto sul controllo curdo su Kirkuk, che darebbe al Kurdistan irakeno le risorse per promuovere i movimenti indipendentisti anche tra i curdi dei loro paesi, minacciando di sovvertire la mappa del Medio Oriente. Già tra gli arabi si parla del Kurdistan filo-americano come di un secondo Israele.

Frazioni regionali nella borghesia sciita

Si potrebbe ritenere che la borghesia arabo-sciita, dato che gli arabi sciiti costituiscono la maggioranza della popolazione irakena, sia tutta per uno Stato centralizzato, o a limitato decentramento federale, sotto il proprio controllo "democratico". Questa è la posizione sintetizzata dalla massima autorità religiosa sciita in Irak, l'ayatollah al Sistani, residente a Najaf. Ma questa posizione non è condivisa da tutta la borghesia sciita, che appare divisa in frazioni regionali. Secondo il Financial Times infatti, gli amministratori di tre province del Sud (Bassora, Missan e Dhiqar, la provincia di Nassiriya) e della città di Bassora (seconda città dell'Irak con circa 1,5 milioni di abitanti) stanno promuovendo la costituzione di una regione federale del Sud, sul modello della regione curda al Nord. Le tre province non si vedono adeguatamente rappresentate nell'attuale governo provvisorio, avendovi un solo rappresentante; esse deterrebbero l'80% delle riserve petrolifere irakene, e ritengono di non ricevere un'equa quota delle risorse economiche nazionali. Si vedono emarginate non più dai governanti sunniti, ma dai vertici politico-religiosi delle città sante sciite, Najaf e Karbala, prevalenti nel governo Allawi. Questi avrebbero addirittura offerto maggiore rappresentanza ai leader sunniti, nel tentativo di sedarne la resistenza armata, a scapito delle province del Sud. Il governo Allawi starebbe inoltre sottraendo a queste province quote di autonomia di cui esse avevano goduto durante l'amministrazione americana, mediante il trasferimento di poteri dalle province ai comandanti militari dell'area. Un diplomatico occidentale osserva che "Nel Sud la popolazione si sente guardata dall'alto in basso da Najaf e Karbala, come cittadini di seconda classe, e ritiene che sotto di loro non si troverebbe meglio che sotto i sunniti".
Secondo "fonti vicine al governo irakeno" alcuni dei promotori dell'autonomia del Sud sono appoggiati da Moqtada al-Sadr. Quello che appariva un fanatico religioso - o un irriducibile patriota votato alla cacciata dello straniero - compare ora sotto una luce diversa, quale rappresentante, o aspirante tale, di una importante frazione regionale della borghesia sciita, in lotta con l'establishment politico-religioso sciita per ottenere maggiore rappresentanza nel governo - e una voce in capitolo sulla ripartizione dei proventi petroliferi. La famiglia degli al-Sadr è una delle grandi famiglie della Shia, con una storia di martiri assassinati dal regime baathista (due zii, il padre, due fratelli), ma anche una parentesi di collaborazione a metà degli anni '90, quando il padre di Muqtada, Muhammad Sadiq, aveva preso le distanze dall'Iran e aveva teorizzato la conciliazione tra l'Islam e le istituzioni tribali, in concomitanza con la loro valorizzazione da parte del regime di Saddam che stava cercando di utilizzarle in funzione di puntello del sistema, in difficoltà per l'embargo ONU.
Alla base dell'influenza degli al-Sadr stanno legami sia di carattere religioso che tribale. La forte disgregazione contadina avvenuta soprattutto a partire dagli anni '50 ha determinato importanti correnti migratorie verso le aree urbane e soprattutto verso Baghdad e Bassora. La guerra Iran-Irak negli anni '80 ha inoltre provocato un importante esodo di rifugiati dalle regioni del Sudest, inclusa Bassora, massicciamente bombardata dagli iraniani. Baghdad ha gonfiato i suoi abitanti da 500mila nel 1947 a 1,7 milioni nel 1965, a 3,8 milioni nel 1987 e ai circa 5 milioni attuali. Nei primi anni '60 buona parte degli immigrati sciiti a Baghdad vennero trasferiti dalle baraccopoli cresciute spontaneamente nella periferia a nuovi quartieri residenziali fatti costruire dal governo. Il più importante tra questi insediamenti, Madinat ath Thawra, venne ricostruito a fine anni '70 con case basse e vie larghe, e soprannominato Saddam City. L'industria delle costruzioni ha assorbito una quota consistente della rendita petrolifera, e offerto occupazione a una quota importante degli immigrati che non trovavano posto nel pubblico impiego. Madinat ath Thawra, circa due milioni di abitanti, è una metropoli nella metropoli e la maggiore concentrazione di sciiti del paese. Facendo leva sui loro legami religiosi e tribali, qui gli al-Sadr hanno costruito una loro importante base di potere, che si affianca all'influenza nelle province del Sud, tanto che l'agglomerato viene comunemente chiamato Sadr City.
E' significativo che Muqtada abbia accettato di far consegnare le armi medie e pesanti detenute dalle milizie dell' "esercito del Mahdi" di Sadr City (ogni famiglia ha diritto a detenere un'arma leggera), in cambio di aiuti per 500 milioni di dollari al sobborgo (che verranno distribuiti dai sadristi), della liberazione dei miliziani prigionieri, e della ammissione del movimento al processo elettorale, proprio mentre si candiderebbe ad esprimere gli interessi autonomisti delle province del Sud. La sua organizzazione religioso-politico-militare, che avrebbe reclutato adepti soprattutto nel sottoproletariato sciita, dopo diverse avventure tra cui il tentativo di impossessarsi del seggio sciita di Najaf, pare ora essere divenuta il trampolino per l'associazione al potere sotto la custodia americana. Le giravolte di Muqtadada, probabilmente non ancora terminate, sono e saranno da interpretare sulla base delle lotte tra le frazioni sciite e non delle ideologie religiose e nazionalistiche di volta in volta addotte.

Utilizzo francese

Su questa lotta tra frazioni intervengono le potenze occupanti, e in primo luogo gli USA, nel tentativo di mediare un compromesso sotto la propria egida. Ma questa mediazione appare sempre più difficile, data la forte contrapposizione degli interessi. La borghesia curda, da anni stretta alleata degli Stati Uniti, minaccia la secessione e chiede Kirkuk, dichiarata irrinunciabile anche da sunniti e sciiti. Settori importanti della borghesia sunnita, capaci di infliggere pesanti perdite soprattutto alle forze armate irakene in via di ricostituzione, non sono disposte a sottostare ad una repubblica a dominanza sciita. Le divisioni interne alla borghesia sciita mettono a loro volta in discussione la struttura del nuovo Stato, mentre la corrente rappresentata da Allawi tende sempre più ad assumere i caratteri dittatoriali del deposto regime.
Ciò non è il risultato di una presunta refrattarietà degli arabi o dell'Islam alla democrazia borghese. E' il retaggio dell'azione degli imperialismi, e di quello britannico in particolare, che hanno creato lo Stato irakeno e gli altri Stati della regione non seguendo i criteri della nazionalità, ma secondo criteri di spartizione imperialista e in funzione delle proprie esigenze di divide et impera. E su queste divisioni, che da un lato permettono alle potenze occupanti di evitare il formarsi di un fronte comune di liberazione nazionale, intervengono anche altre potenze. Non solo l'Iran, che conserva un'influenza sul clero sciita. Il ministro degli Esteri francese, Michel Barnier, ha proposto che al tavolo di una conferenza internazionale sull'Irak siedano anche i rappresentanti della resistenza armata irakena. Questa cessa di essere una forza puramente interna (cosa che già non è, includendo correnti panislamiche) e diviene pedina di una contesa imperialista, impugnata dall'imperialismo francese, che già aveva scalzato la British Petroleum dopo che gli impianti irakeni di questa erano stati nazionalizzati. Gli americani hanno invaso l'Irak certi che nessun'altra potenza imperialista avrebbe osato contrastarli militarmente. Ma ora rischiano che l'occupazione venga logorata dal sostegno politico e finanziario, se non direttamente militare, alla resistenza sunnita da parte degli imperialismi rivali, mentre la coalizione mostra alcuni segni di stanchezza: dopo la Spagna anche le Filippine hanno ritirato le loro truppe, e ora la Polonia dichiara che intende ritirarle subito dopo le elezioni previste per gennaio.
Nonostante le perdite americane siano incomparabilmente inferiori a quelle della guerra del Vietnam (i militari morti hanno superato di poco il migliaio, rispetto ai 50 mila del Vietnam), e nonostante i mass media che si oppongono a Bush non facciano campagna per il ritiro, vi sono segnali di insofferenza tra le truppe (con un primo episodio di insubordinazione collettiva), che avvertono una crescente ostilità della popolazione locale (ammessa anche dai militari italiani). Le torture di Abu Grahib, i bombardamenti su Fallujah e Samarra non hanno favorito la popolarità dei "liberatori". Anche sul fronte interno americano diminuisce l'entusiasmo per la guerra. Fiutando crescenti difficoltà in prospettiva, il ministro della Difesa americano Donald Rumsfeld ha abbandonato il suo iniziale trionfalismo e si è espresso per il ritiro americano anche senza "pacificazione". Ma perché il ritiro non sia una disfatta, occorre che le nuove forze armate irakene siano in grado di controllare il territorio, cosa che è lungi dall'essere realizzata. E nel frattempo il governo americano ha bisogno di aumentare le truppe per tentare di stroncare i maggiori focolai di resistenza.

Compito internazionalista

In questa situazione si pone il problema dell'atteggiamento che devono tenere gli internazionalisti in una metropoli come l'Italia. Il compito principale è la lotta contro l'aggressione imperialista, a partire da quella che viene da casa nostra, dall'imperialismo italiano. Abbiamo denunciato le ragioni imperialistiche dell'intervento italiano, mirante ad ottenere per l'ENI concessioni sui campi petroliferi di Nassiriya (già contrattate col governo di Saddam), oltre che ad acquisire commesse per la ricostruzione e a consolidare la propria influenza sull'area mediorientale. Siamo contro la guerra e per il ritiro delle truppe occupanti non perché ci poniamo in un'ottica pacifista, ma perché si tratta di una guerra imperialista per l'oppressione di un popolo, e soprattutto del suo proletariato, come abbiamo documentato (vedi pm n°1).
Occorre sensibilizzare le nuove generazioni, che vedono sugli schermi i massacri quotidiani, perché comprendano il carattere imperialista di questa violenza e si schierino contro l'imperialismo, evitando l'illusione che vi possa essere pace senza il rovesciamento del sistema capitalistico, e la tentazione di identificare l'imperialismo con la sola potenza americana, finendo così col riporre le proprie speranze non nella lotta di classe, ma nell'azione delle potenze rivali. Gran parte del movimento pacifista nostrano si trova infatti, più o meno consapevolmente, al carro del piano del governo francese, che mira a rientrare in gioco tramite l'ONU e facendo leva sul consolidamento della resistenza contro l'occupazione. Indocina e Algeria hanno dimostrato che l'imperialismo francese non è meno brutale di quello americano, se ne ha l'occasione. Non è stato da meno anche quello italiano in Libia ed Etiopia. L'altra tentazione da combattere è quella di appoggiare tutto ciò che si oppone all'occupazione, e affidarsi alla resistenza irakena come oggi si manifesta. Ogni colpo che questa assesta alle truppe d'occupazione può indurre giovani e lavoratori e gli stessi soldati delle potenze occupanti a riflettere sui perché di questa guerra e a non farsi trascinare dallo sciovinismo. Ma il proletariato internazionale non deve appoggiare frazioni reazionarie della borghesia che hanno in più occasioni dimostrato la loro ferocia anticomunista, e che ora puntano a recuperare le proprie precedenti posizioni di dominio o a imporre nuove forme di oppressione nazionale. Il criterio guida dei comunisti dev'essere quello di favorire il rafforzamento dell'indipendenza di classe e delle posizioni internazionaliste nel proletariato.
La borghesia irakena ha già portato avanti la sua rivoluzione nazionale borghese. Il proletariato irakeno è già stato ricambiato con massacri e repressioni per aver appoggiato, sotto la guida del partito stalinista e ora filoamericano, l'una o l'altra frazione della borghesia irakena. Lo stesso è avvenuto in Iran con la rivoluzione islamica. Non vi è motivo perché esso ripeta quell'errore, se pure nella lotta contro l'occupazione straniera.
Oggi esso, fiaccato da decenni di repressione, dissanguato in otto anni di guerra contro l'Iran e da oltre un decennio di embargo ONU, colpito da una disoccupazione di massa in seguito al dissesto dell'economia, stretto tra i tre fuochi degli eserciti occupanti, del vecchio apparato poliziesco e dei riaccesi fanatismi religiosi, mostra difficoltà a condurre una lotta indipendente, contro l'occupazione straniera e contro l'oppressione capitalistica.
Solo una forte mobilitazione dei lavoratori nei paesi della coalizione occupante può dar voce e forza agli operai irakeni e a quei gruppi che portano avanti una resistenza di classe, internazionalista e rivoluzionaria, contro l'occupazione imperialista. Per questo il compito principale degli internazionalisti è utilizzare le contraddizioni della moderna barbarie imperialista, l'indignazione che essa provoca tra giovani e lavoratori, per portarli alla visione marxista del mondo, per farli schierare contro il sistema capitalista, a fianco del proletariato internazionale.






Pubblicato su: 2005-04-23 (1959 letture)

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