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N°39 Pagine Marxiste - Gennaio 2016
Le guerre della “pacifica” Italia

A dicembre, dopo gli attentati di Parigi, mentre Cameron strappava ai Comuni l’autorizzazione a bombardare nel cielo affollato di Siria, Hollande dichiarava la Francia “in guerra” e esplodeva il conflitto Turchia - Russia, l’atteggiamento di Renzi e del governo italiano può essere sembrato di equilibrio e saggezza. I mantra del premier italiano (non ingaggiare una nuova guerra se non si ha un piano per il futuro) indica in realtà un disegno di intervento militare differito, quando certe condizioni siano realizzate. E prosegue un processo impercettibile di costante rafforzamento dell’esecutivo, di asservimento dei media e di riduzione degli spazi politici, grazie anche all’uso spregiudicato del tema sicurezza. Contemporaneamente l’indebolimento economico relativo dell’Italia rispetto agli altri imperialismi non si traduce immediatamente in indebolimento della proiezione internazionale, che le consente di estrarre plusvalore dal proletariato degli altri paesi. Anche perché l’Italia reagisce a questo indebolimento con l’attivismo militare, pur non utilizzando Renzi la retorica bellicista (delegata a intermittenza a Gentiloni).


LE MISSIONI MILITARI
La “pacifica” Italia da molti anni investe risorse e uomini in numerose missioni militari, ognuna delle quali risponde a precisi scopi imperialistici.1
Da questo punto di vista da Berlusconi a Monti, da Letta a Renzi c’è una perfetta continuità nella politica estera italiana, che è al servizio dell’export di merci e capitali, degli investimenti e delle commesse dei grandi gruppi, ma anche delle piccole-medie imprese internazionalizzate. L’affiancamento delle missioni militari, le relazioni stabilite con le classi dirigenti locali e con gli altri imperialismi che intervengono creano una complessiva influenza politica.
L’Italia è l’ottava potenza nel mondo per PIL nominale,2 è il decimo paese al mondo per volume di scambi, è la seconda potenza manifatturiera in Europa e la quinta nel mondo. In proporzione al suo peso economico, tuttavia, secondo il Sole 24 Ore, soffre di un “deficit reputazionale”. Renzi si gloria spesso di aver ridato all’Italia il posto che merita. In tutti i suoi viaggi come procacciatore di affari (e ne ha fatti tanti)3 non lesina gli autoincensamenti ed esalta questo “paese di costruttori di dighe e oleodotti”. Poco ci preoccupa che da destra gli si rimproveri che l’Italia spesso non è invitata ai meeting che contano. Vogliamo invece smontare la tesi di certa sinistra secondo cui l’Italia non ha una sua propria politica estera, che è succube degli Usa; addirittura qualcuno parla di “paese dominato” o “paese a sovranità limitato”. Definizioni che finiscono per diventare quasi una assoluzione mistificante, e per negare il carattere imperialistico delle numerose missioni militari italiane. Missioni che ovviamente per la propaganda sono sempre “di pace” e “umanitarie”, ma in realtà corrispondono a interessi concreti di specifici gruppi, anche se sono pagate dalla “collettività” vale a dire da chi paga le tasse, cioè nella stragrande maggioranza, dal lavoro dipendente.
LE AMBIZIONI ITALIANE IN LIBIA
Nelle decisioni di intervento militare spesso il Parlamento ha avuto un ruolo puramente di avallo delle decisioni prese dall’esecutivo; situazione che diventerà più frequente quando sarà approvato un disegno di legge fermo al Senato che mira ad esautorare il legislativo in particolare sullo stanziamento dei fondi per finanziare le missioni militari e per decidere gli interventi. Non ci illudiamo che il Parlamento sia un freno adeguato, ma il dibattito parlamentare consente per lo meno di non passare sotto silenzio le decisioni.4
In primo piano fra le ambizioni italiane c’è un intervento in Libia. A questo ha lavorato Renzi nell’ultimo anno. E intorno a questo nodo si è posizionato il nostro esecutivo che sull’intervento è compatto, se mai c’è disaccordo sui tempi e sulle modalità.5 Deve essere un intervento concordato con Usa, Russia e Germania: l’ambizione è di giocare un ruolo da mediatore fra Usa e Russia, ingraziandosi entrambe, posizione non comodissima tenuta a partire dalla crisi ucraina nel 2014,6 ma estesa alla Libia e alla Siria; difficile anche il rapporto con la Germania che ha snobbato le velleità italiane di un asse comune sui profughi, convocando vertici a cui l’Italia è stata sistematicamente esclusa.
Soprattutto il mantra è che l’intervento deve essere a guida italiana, perché sono ancora fortissime le ambizioni di Francia, Emirati e Qatar di ridimensionare il peso dell’Eni (i caccia francesi da mesi volano lungo la costa della Sirte; gli Emirati hanno già bombardato nell’estate del ’14; l’intelligence inglese è presente sul territorio, mentre le forze speciali Usa atterrate ad al-Wattyah a Sud di Tripoli sono state costrette a ritirarsi). Renzi vuole il ripristino dei pozzi interni e, perché no, anche mettere sotto controllo i flussi di migranti, grazie alla propria flotta, magari in collaborazione con la flotta russa, creando dei campi di concentramento sulle coste libiche, gestite dagli italiani, che magari poi faranno la selezione di chi ammettere e chi no. L’altra ambizione è di ottenere la formazione della polizia locale, anche se le esperienze in materia sono tutt’altro che entusiasmanti7 e ottenere il controllo di almeno un aeroporto. Naturalmente chi preme per un intervento subito sottolinea come gli altri imperialismi “perseguano interessi nazionali generalmente ostili a quelli italiani” e quindi attendere troppo significa perdere il treno come nel 2011 (Analisi Difesa 29 dicembre 15 “Libia, detenere il comando senza sporcarsi le mani”).
La guerra del 2011 ha fortemente danneggiato gli interessi del capitalismo italiano: è stata voluta da Francia e Usa per indebolire la forte posizione dell’Eni nell’estrazione di gas e petrolio ed espellere le imprese russe e cinesi. Nei fatti, però, nessun altro paese belligerante è riuscito a sfruttare la situazione a suo vantaggio. Shell, Exxon, Marathon Oil, Total, BP se ne sono andate. L’Eni, forte di un radicamento pluridecennale, fino all’autunno 2014 ha mantenuto nel paese il personale italiano che poi ha dovuto far rientrare, ma ha continuato a sfruttare i pozzi off-shore col personale libico (Sole 24 Ore 12/12/15) tanto da portare quest’anno la produzione a 300 mila barili al giorno, più della quota anteguerra, mentre il gasdotto Greenstream funzionava a pieno ritmo. Soprattutto l’Eni ha continuato a scoprire nuovi giacimenti a Bahr Essalam South e a Bouri North (Rigzone, 15 ott. 2015), protetta da solide alleanze con tutti i gruppi di combattenti locali anche di opposte fazioni. Ma con la guerra si sono bloccate le grandi opere commissionate a Salini-Impregilo, Ansaldo, Pirelli Cavi, le commesse per Agusta, Alenia, Iveco, con una perdita secca di 4 miliardi di €. Oltre 100 aziende italiane hanno più di un miliardo di crediti inesigibili per i lavori già svolti. Del tutto bloccata l’attività della Sme Task Force (82 imprese italiane del Nord-Est), consorziatesi nel 2012 per operare nel mercato libico. Nonostante tutto la Camera italo-libica di Tripoli è rimasta aperta e l’Italia ha partecipato con 55 imprese alle fiere di Tripoli del 2014.
La Lega Nord, nel corso del 2015 ha chiesto a gran voce una reazione “forte” al caos libico, un intervento militare per riaprire alle imprese nazionali un mercato nel cortile di casa e bloccare gli immigrati e i profughi dalla Libia. Al di là dell’apparente contrasto col governo, in realtà Salvini ha fatto da mosca cocchiera per conto di questi gruppi economici utilizzando la propaganda xenofoba come strumento.
Il problema è che oggi in Libia ci sono due governi, uno a Tripoli riconosciuto dalla Turchia e appoggiato dal Qatar, e uno a Tobruk riconosciuto da tutti e supportato da Emirati e Egitto. In mezzo c’è la Cirenaica (Bengasi, Misurata) con infiltrazioni dell’Isis. Il governo italiano vuole la garanzia che se ci fosse intervento, l’Italia sarà capofila della missione. In marzo 2015 Renzi ha ottenuto da Putin la promessa di pattugliamento russo-italiano del mare antistante la Libia. Non è invece stata realizzata la missione Onu di realizzare la pace fra i due governi di Tripoli e di Tobruk, in modo da poter dire che la missione militare è una risposta a una richiesta libica. L’Italia infatti ha interessi in tutte le aree libiche, non può inimicarsi né Tobruk né Tripoli, ma nemmeno i loro sponsor internazionali, affezionati clienti e acquirenti di Finmeccanica. Il primo mediatore Onu, De Leon, ha fallito (e poi si è scoperto che era al soldo degli Emirati). Adesso è stato incaricato, non a caso, un tedesco, Martin Kobler, come “Rappresentante speciale delle Nazioni Unite”, ma ha un senior advisor italiano, il generale Paolo Serra, un veterano del Libano.
E a coronamento di tutto è venuta la Conferenza internazionale promossa a Roma il 12 dicembre dal segretario di Stato Usa Kerry e dal ministro degli esteri italiano Gentiloni, cui ha presenziato una folta delegazione di paesi dall’Africa del Nord (Marocco Algeria, Tunisia, Egitto), dall’Africa Centrale (Ciad), dal Golfo (Qatar Emirati Arabia Saudita), la Giordania, la Turchia e per l’Europa Italia, Spagna, Francia, Germania, Italia, i cinque paese del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Usa, Russia, Cina oltre che Francia, Gran Bretagna) Lega Araba, Unione Africana e UE.
Sulla spinta della pressione internazionale, ma anche minacciati dall’Isis i due governi rivali di Libia hanno firmato dopo molti tentennamenti un accordo il 17 dicembre in Marocco, che prevede il cessate il fuoco e un governo unitario entro 40 giorni. Ma forte della sua influenza su Tripoli che controlla la Banca nazionale, l’ente petrolifero di Stato e la maggior parte del territorio, il Qatar ha già parlato di firme apposte da funzionari fantoccio. L’Egitto manovra il generale Khalifa Haftar, a Tobruk. I giochi insomma sono tutt’altro che fatti, la situazione è in movimento, l’Italia, ben posizionata nell’estrazione di gas, punta per questo sulla diplomazia. Il 28 dicembre Renzi e Gentiloni hanno incontrato il primo ministro libico designato Fayez Al-Serraj; sul tavolo il rinnovo del «Trattato di amicizia e di cooperazione» firmato il 30 agosto del 2008 da Berlusconi e Gheddafi, trattato, sospeso nel 2011, che prevedeva in particolare un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche da parte italiana. Cinque giorni prima De Scalzi per l’Eni aveva incontrato il presidente della compagnia petrolifera di Stato libica National Oil Corporation (Noc), Mustafa Sanalla.
IRAQ, AFGHANISTAN, LIBANO
L’Italia ha sempre escluso di intervenire in Siria, ma ha mantenuto un forte contingente in Libano e, in linea con le decisioni Usa, è re-intervenuta in Iraq e ha prolungato la missione in Afghanistan, sia per interessi in loco, sia nell’ipotesi di barattare un intervento di sostegno in Iraq e Afghanistan con un chiaro appoggio Usa a una leadership italiana in un eventuale intervento in Libia.
È chiaro che si esclude l’intervento in Siria per evitare di posizionarsi esplicitamente nei riguardi del conflitto Turchia-Russia, paesi entrambi partner importanti sul piano commerciale, pur essendo evidente che molti ambienti economici italiani tifano per l’intervento russo in Siria. In cambio, dai dati Sipri si evince che l’Italia ha venduto salomonicamente armi sia ad Assad che ai gruppi ribelli.
In Iraq invece l’Italia c’è dal 2014. Si era ritirata nel 2006, dopo tre anni di guerra che, dal punto di vista della borghesia italiana, hanno prodotto di fatto un significativo insuccesso. Nel 2003 l’Italia intervenne allo scopo di conservare il controllo dei giacimenti petroliferi di Nassiriya, concessi sulla parola all’Italia da Saddam prima dello scoppio della guerra. Ma nel dicembre 2006 i giacimenti di Nassiriya passano alla Nippon Oil, che poi li cede alla compagnia irachena, South Oil Company. A parziale risarcimento per la perdita dei campi petroliferi di Nassiriya, nell’ottobre 2009 l’ENI ottiene in concessione un grande campo petrolifero nell’estremo sud dell’Iraq, Zubair, assai meno vantaggioso.8 Il 20 agosto 2014 l’Italia torna con una nuova missione (“Prima Parthica”), che prevede di addestrare soldati sunniti a Bagdad e peshmerga curdi a Erbil.9
Erbil è un centro importante del Kurdistan iracheno, dove molte società straniere hanno investito nell’estrazione di petrolio e dove evidentemente l’Eni spera di introdursi, dopo essersi ingraziato i capi curdi addestrandone la polizia. A questi peshmerga (che garantiscono l’ordine interno, non combattono con l’Isis) è stata fornita anche “una consistente quantità di armi italiane”. Nei primi nove mesi 2015 si sono spesi 135 milioni di € e impegnati prima 280, poi 750 militari (istruttori, consiglieri militari, forze speciali e team del Genio per lo sminamento). In più si inviano i Tornado per missioni di ricognizione, partendo dagli aeroporti del Kuwait. Il Kuwait diventa la base del comitato d’affari di Finmeccanica che firma un contratto da 8 miliardi di € col Kuwait (per l’acquisto di Eurofighter), vende sempre più armi ad Arabia ed Emirati, partecipa all’Air Show di Dubai, assieme a Alenia Aermacchi, Agusta Westland e Selex ES, apre un proprio ufficio di rappresentanza ad Abu Dhabi non solo per vendere, ma anche per promuovere “partnership industriali e corsi personalizzati di istruzione avanzata in collaborazione con le università italiane” e per produrre componenti in collaborazione con le aziende locali in Qatar ed Emirati.10 Nel 2014 il 28% dell’export di armi italiane si è concentrato in Nord Africa e Medio Oriente, andando anche a paesi in guerra come l’Arabia.
Il 15 dicembre 2015 Renzi annuncia l’invio di altri 450 uomini alla diga 50 km a nord di Mosul, città del Nord iracheno in mano all’Isis, su invito del governo di Bagdad, irritato per l’invio da parte turca di un contingente militare. E qui si vede il semplicismo di chi vede riduttivamente la politica estera italiana ispirata solo da Eni e Finmeccanica. Alla diga di Mosul, che ha bisogno di un intervento veloce per evitarne il crollo che travolgerebbe tutte le città a valle, opera la Trevi di Cesena. La missione dovrebbe partire nell’aprile 2016.
In Medio Oriente, ma anche in Africa o in America Latina, oltre all’estrazione del petrolio, e all’export di manufatti e di armi, un settore cruciale per il capitale italiano sono le infrastrutture, termine con cui si intendono mega opere come l’impiantistica, i trasporti (dalle autostrade all’attrezzare un porto), l’energia (oleodotti, gasdotti, turbine, scavo dei pozzi ecc.), e le telecomunicazioni. In questo settore operano ad es. la Salini-Impregilo, la Danieli, la Saipem, la Tecnimont, l’Italferr (gruppo FS), ma anche aziende meno note come appunto la CMC, la Trevi ecc.
Queste società ispirano le missioni diplomatiche di Renzi, ma anche sono utilizzate come punta avanzata per la penetrazione economica complessiva nei territori. Abitualmente le grandi imprese si dotano di servizi di sicurezza privati. Il governo italiano ha preso al balzo il pretesto del contratto Trevi per posizionarsi militarmente in un’area cruciale, tra ISIS, esercito turco che ha sconfinato in Iraq nonostante la diffida di Baghdad, esercito iracheno, forze curde. Con qualche incidente di percorso. Così dopo l’annuncio italiano dell’intervento a Mosul, il governo di Bagdad ha smentito di averlo autorizzato e anche l’appalto alla Trevi deve ancora essere assegnato!?
Poco prima il governo italiano aveva deciso di mantenere in Afghanistan le truppe inviate con la missione Resolute Support (che dal 1° gennaio 2015 sostituisce ISAF). Spesso si sente dire: ma che ci stiamo a fare in Afghanistan? Magari non è evidente, ma per gli Usa l’Afghanistan è un caposaldo militare fondamentale nei confronti di Russia e Cina da un lato e Iran dall’altro. Questo vale anche per gli europei, compresa l’Italia e ancor più per la Germania, anche se per gli europei vale meno l’intento di minaccia, quanto l’idea che si possa in questo modo garantire i confini di paesi amici (Iran e Turkmenistan per l’Italia; Cina per la Germania) con cui si intrattengono scambi commerciali, in cui si investono ecc. Lo stesso vale per la Turchia che intrattiene intensi rapporti con le etnie turcofone delle repubbliche islamiche ex sovietiche, ma anche della Cina.
Ma non vanno sottovalutati gli interessi economici in Afghanistan: l’oppio, la cui produzione dal 2007 è passata direttamente sotto il controllo delle grandi case farmaceutiche occidentali, col consenso e l’assistenza dei militari.11 Le stesse aziende puntano al controllo dei rifornimenti di lithio, importanti anche per la metallurgia e l’elettronica. Da anni è in corso una lotta fra i paesi occidentali per il controllo dello smercio dello zafferano afghano. Ma interessi anche più grandi si concentrano intorno alle risorse minerarie, ad es. il marmo.
L’Italia è inoltre in prima fila per la costruzione del T.A.P.I. (dalle iniziali dei paesi coinvolti) il faraonico gasdotto che metterà in comunicazione il campo petrolifero di Dauletabad in Turkmenistan, attraverso Afghanistan e Pakistan, a Karachi in India. Il gasdotto sarà affiancato da una ferrovia che collegherà il Turkmenistan, paese in cui l’Italia fa affari da anni, ad Herat, il centro del comando operativo militare italiano in Afghanistan.
Per quanto riguarda gas e petrolio di recente è stato scoperto un grande giacimento ai confini con l’Uzbekistan e cui sono interessate Eni, Total e Heritage Oil.
Ecco perché l’Italia è rimasta a presidiare le regioni nord-occidentali, intorno ad Herat.
L’imperialismo italiano non ha mai mollato la presa sul Libano dove il contingente UNIFIL conta ancora 1095 uomini. In una conferenza organizzata da Finmeccanica con la partecipazione di militari e politici è stato detto che “Oggi l’Italia rappresenta il secondo partner economico al mondo (secondo solo agli USA) e l’interscambio è cresciuto mano a mano che la presenza militare nazionale si è fatta più consistente grazie al lavoro di squadra che ha coinvolto Ambasciata Italiana, Contingente Militare, Istituto Commercio Estero”. Il Libano è da sempre la cassaforte del Medio Oriente. Meta fondamentale per i commerci e il turismo dei paesi confinanti e del Golfo Persico, i depositi monetari presso gli istituti bancari di Beirut sono di una entità sproporzionata rispetto alle dimensioni dell’economia del paese.
La presenza commerciale italiana è ben radicata e copre tutti i settori, dai beni d’investimento a quelli di consumo ed intermedi. Il mercato locale non è certo rilevante per volume, ma dispone di un elevato grado di apertura a scambi e triangolazioni varie, nei segmenti qualitativamente alti, ed è anche piattaforma di lancio verso l’area mediorientale, mettendo al servizio le sue affinità con il mondo occidentale ed i relativi sistemi industriali
La scoperta di giacimenti offshore di gas nei tratti di mare di fronte a Gaza12 e fra Libano e Israele (in misura tale da rendere Israele autosufficiente in campo energetico ed un esportatore di gas se sfruttati) aumenta l’interesse strategico ad avere una base stabile nel paese.
È evidente quindi che il passaggio dal “pacifico commercio” agli interventi militari più o meno belligeranti nella migliore tradizione imperialista caratterizza l’Italia come gli altri paesi a capitalismo maturo, cambia l’ideologia ma non la sostanza. Il tutto avviene nel disinteresse della maggior parte degli italiani, che non reagiscono a questi annunci, se si fa eccezione per manipoli di pacifisti cattolici e per sparute minoranze politiche. Mentre quando Cameron è riuscito a far votare ai Comuni i raid in Siria migliaia di londinesi hanno manifestato per protesta sotto il Parlamento, in Italia stenta a decollare una opposizione non solo internazionalista ma nemmeno semplicemente pacifista.



Nota 1) La più costosa resta quella in Afghanistan, passata dai 4 mila uomini del 2003 ai 760 dell’estate 2015, costata fino al 2014 circa 6 miliardi di €. La spedizione in Iraq del 2003-2006 schierò più di tremila uomini, lasciò sul terreno 35 morti e costò 1534,6 milioni di € (di cui solo 32 per operazioni umanitarie, genere gestione ospedali ecc.). L’intervento in Kosovo (2000-2006) è costato 2,6 miliardi di €. A metà del 2015 l’Italia aveva 4500 militari impegnati all’estero in 38 paesi.

Nota 2) La classifica del FMI nel 2014 elenca nell’ordine Usa, Cina, Giappone, Germania, Francia, Gran Bretagna, Brasile, Italia, Russia, India, Canada.

Nota 3) Anche un semplice elenco dà l’idea dei paesi toccati:

- marzo ’14: Tunisia (50% dell’export tunisino riguarda l’Italia);

-giugno ’14: Vietnam (base privilegiata per entrare in altri paesi Asean; vi operano Piaggio, Ariston, Italia sta costruendo una raffineria e un complesso petrolchimico); Cina (con delegazione Eni, Unicredit, Finmeccanica); Kazakhistan (visita preliminare alla firma di accordi per 500 milioni di € all’Expo di Milano);

- luglio ’14: Mozambico (Eni giacimento off-shore di gas; invest. previsto 50 miliardi di €; presenti 90 ditte italiane); Congo Brazzaville (accordo per giacimento di petrolio off-shore); Angola (vi operano 70 imprese it., soprattutto dell’agroalimentare e energia);

- 17 ottobre ’14: 14° vertice Asem a Milano;

- dicembre ’14: Algeria (l’algerina Cevital compra pezzi del gruppo Lucchini);

- marzo ’15: Russia /Putin riceve Prodi nel dic. ’14, e Berlusconi nel luglio 2015);

- luglio ’15: Etiopia (diga Gibe da Salini Impregilo) e Kenya (diga di Itare Coop di Ravenna, Intesa San Paolo e BNP Paribas);

- ottobre ’15: Cile (investimenti di Eni, Ansaldi che gestisce aeroporto di Santiago), Perù (la linea due della metro di Lima costruita da consorzio guidato da Salini Impregilo con Ansaldo Sts, Breda e Italferr); Colombia; Cuba;

- novembre ’15: Arabia Saudita;

Nota 4) Si tratta di una legge quadro, in base alla quale basteranno atti di indirizzo, e non esclusivamente leggi, per varare missioni militari. Il governo potrà decidere di applicare per determinate missioni il codice penale militare di guerra invece che quello di pace

Nota 5) Quando Gentiloni nel febbraio 2015 ha fatto la sua bellicosa dichiarazione di prossimo intervento in Libia è stato prontamente zittito da Renzi, ma appoggiato dai telegiornali di Stato che davano l’Isis già a Roma; questo è stato un tentativo di forzare la mano a Renzi, che non a caso, sta varando una riforma che consentirà al governo il totale controllo delle tre reti Rai. Sempre in funzione di pressione il Corriere della Sera anticipava che “l’Italia bombarderà l’Isis” in Iraq.

Nota 6) L’Ucraina è stata un perfetto esempio dell’equilibrismo diplomatico italiano: Renzi ha approvato le sanzioni decise contro la Russia, e l’Italia ha subito perdite intorno al miliardo di € nel suo export, ma Renzi ha continuato a proporsi come mediatore fra Putin e Poroshenko, sia pure senza grandi risultati. In ogni caso ha ricevuto Putin con tutti gli onori (in ottobre ’14 al vertice Asem a Milano e in giugno 15 per l’Expo). Putin, nel dubbio si è incontrato a Mosca anche con Prodi (dic.’14) e Berlusconi. La Lega si è presentata come il campione delle piccole medie imprese italiane che hanno tutto l’interesse a liberarsi del “giogo tedesco” e riprendere con gli affari in Russia, mentre Renzi ha avuto un atteggiamento più filo-Atlantico e attento a non rompere né con la Russia né con gli Usa, né con la Germania.

Nota 7) Analisi Difesa del 29 dicembre scorso ci informa che “delle migliaia di reclute libiche che nel biennio 2013-2014 sono state addestrate in Italia ed Europa si sono perse le tracce. In molti sono stati cacciati per abusi e problemi disciplinari, un buon numero non ha completato l’addestramento, alcuni hanno chiesto asilo nei Paesi che li ospitavano e di quelli rientrati in Libia nessuno di loro ha combattuto lo Stato Islamico mentre non è escluso che in diversi abbiano ingrossato le fila dei gruppi jihadisti”.

Nota 7) Zubair è un premio di consolazione poco vantaggioso anche se l’Italia è capofila col 32%, perché il contratto non prevede una partecipazione agli utili, ma solo 2 $ al barile pagato all’Eni in cambio del lavoro svolto. In più il deplorevole stato delle infrastrutture porta Eni e autorità irachene a concordare una riduzione della produzione giornaliera (febbraio 2015). Nel 2012 Scaroni torna alla carica con il presidente Al Maliki per riottenere una concessione a Nassiriya. Addirittura l’Eni rinuncia alla possibilità di investire del petrolio curdo a nord, per non irritare Al Maliki, ma nel 2014 il quadro politico cambia, al Maliki viene sostituito, gli accordi verbali con lui sono quindi carta straccia e d’altronde Nassiriya si trova nell’area di controllo dell’Isis dall’estate 2014.

Nota 8) Cfr. Combat

Nota 9) Il Medio Oriente è un mercato appetibile anche per altre prodotti: nel 2014 assorbe il 5% del nostro export; per fare un confronto sul nostro export del periodo gli Usa pesavano per il 7,5%, tutta l’Africa per il 5,1%, tutta l’America Latina per il 3,5%. È un mercato in continua espansione, in cui ci sono molti giovani e che, rispetto agli altri paesi emergenti, è anche relativamente vicino. Questi paesi sono anche buoni investitori in Italia, la seconda compagnia aerea degli Emirati ha comperato mezza Alitalia, il Qatar si è comprato l’intero quartiere di Porta Nuova a Milano.

Nota 10) Il 90% degli antidolorifici a base di oppio sono consumati nei paesi industrializzati e il loro consumo è quadruplicato negli ultimi 10 anni con profitti medi annui di 11 miliardi di dollari.

Nota 11) Le riserve di gas accertate al largo di Gaza sono stimate in 30 miliardi di metri cubi di gas; sfruttabile entro 3-4 anni, con un investimento di 1 miliardo di $ e un ritorno economico di 6-7 milioni di $ previsti per parecchi anni. Sia Abu Mazen che Netanyahu hanno fatto delle aperture a Gazprom per allargare anche alla Russia lo sfruttamento.




Pubblicato su: 2016-02-01 (1349 letture)

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