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N°28 Pagine Marxiste - Ottobre 2011
AI DIKTAT IN NOME DELLA CRISI CAPITALISTICA OPPONIAMO LA LOTTA DI CLASSE
Editoriale



Nelle metropoli capitalistiche del Nordamerica, dell’Europa e del Giappone gli Stati sono riusciti a tamponare l’avvitamento della crisi, ma non ad alimentare una vera ripresa, nonostante il traino dell’Asia e America Latina emergenti.
La crisi del debito pubblico, soprattutto dell’Europa meridionale tra cui l’Italia, da un lato minaccia di far saltare gli equilibri finanziari delle banche e quindi di tutto il sistema, dall’altro priva gli Stati delle risorse per un rilancio “keynesiano” dell’economia, con spesa per infrastrutture come sta tentando l’Amministrazione USA.
Ma una cosa dev’essere chiara: come la società, anche la crisi è divisa in classi.
Per il capitale è una crisi di accumulazione sul territorio delle metropoli, ma il capitale essendo internazionale va ad accumularsi in Asia, in Africa, in America Latina dove l’economia continua a crescere. Non è una crisi dei profitti, che restano alti anche nelle metropoli, perché calano i salari.
Lo dice il finanziere Warren Buffet, l’uomo più ricco del mondo nel 2007 e terzo nel 2010, che anche nella crisi è la sua classe che sta vincendo contro i salariati.
Per il capitale c’è il problema di non riuscire a sfruttare anche i milioni di proletari rimasti disoccupati, per arricchirsi ancora di più, ma al contempo il vantaggio di poter usare i disoccupati per ricattare chi lavora e abbassarne i salari, chiedere più lavoro e più flessibile.
I “sacrifici” sulle spalle dei lavoratori imposti dalle Manovre governative e dall’offensiva padronale a partire dalla linea Marchionne non sono una necessità oggettiva, ineluttabile per “uscire dalla crisi” o “salvare l’economia”. Sono un’imposizione del capitale a vantaggio della grande e piccola borghesia, nella misura in cui i lavoratori non hanno la capacità e la forza di respingerli e ridurre la torta del plusvalore che gli viene estorta. Meno ce ne sarà per gli sfruttatori diretti, i padroni, meno ne cederanno ai finanzieri e a tutta la parata degli altri parassiti.
Certo vi è anche lo scontro tra bande di capitalisti e finanzieri che issano le bandiere dei vari imperialismi, e la banda italiana rischia di uscirne perdente. Ma non è prestandosi come carne da sfruttamento per la banda della propria terra che i lavoratori possono sperare una sorte migliore.
Non dipende solo dai rapporti di forza “oggettivi”, ma anche dall’atteggiamento del movimento dei lavoratori: se è succube delle logiche del capitale, o se è indipendente e deciso a lottare classe contro classe.
 
In questo contesto capitalistico - che è sbagliato chiamare semplicemente "speculazione" – si collocano le Manovre plurime alle quali stiamo assistendo.
Si è partiti a luglio con un primo assaggio, poi più che raddoppiato ad agosto ... in attesa di un nuovo imminente colpo, incentrato sulla Previdenza.
Nell'arco di 3 - 4 mesi la borghesia imperialistica italiana, grande e piccola, mette così all'incasso: l'anticipo del calcolo pensionistico sull'aspettativa di vita; l'innalzamento dell'età pensionabile delle lavoratrici; il famigerato Articolo 8 della Manovra di agosto sulla contrattazione e sui diritti del lavoro; l'abbattimento delle detrazioni fiscali; l'aumento di un punto percentuale dell'IVA; i tagli alla spesa sociale; l'aumento delle tariffe pubbliche; lo snellimento del sistema assistenziale; e, come detto, il già ventilato ulteriore affondo sulle pensioni d'anzianità.
 
La crisi capitalistica, dopo essersi manifestata in un biennio di fallimenti bancari e chiusure di fabbriche nel Vecchio e nel Nuovo Continente, prende ora il lungo tunnel del Debito Pubblico, alimentando l'incubo del default dei sistemi statali.
La crisi non è un’invenzione, ma è però sicuramente un'occasione per demolire ciò che rimane del cosiddetto Welfare, attorno al quale plurigenerazioni di salariati, soffocati dal riformismo di ogni tinta, avevano riposto i sogni dei "diritti acquisiti"...
 
La mancata assimilazione dentro la nostra classe che l'attuale resa dei conti non deriva da questo o quel governante, da questo o quello schieramento parlamentare, più o meno biecamente asservito a logiche di potere, ma direttamente dal meccanismo mondiale di produzione e di sfruttamento borghese, ritarda in essa la necessaria lucida determinazione nel perseguire una decisa risposta di classe.
Questa non avverrà per magica fusione illuminista tra "avanguardie" e "masse", e neppure sorgerà come l'Araba Fenice da sporadiche manifestazioni di lotta, tantopiù se "dimostrative"...
Essa potrà prendere corpo e gambe solo dal lavoro tenace, quotidiano, dei gruppi rivoluzionari già esistenti, attraverso una attività coordinata dentro la classe e su obiettivi unificanti. Obiettivi di lotta concreti e condivisi, e non quell’"Addavenì" che ha reso molte formazioni comuniste assolutamente ininfluenti e autoreferenziali.
 
Bisogna partire da subito, valorizzando e assiemando su una prospettiva comunista il movimento reale che la crisi mette in moto.
Su pochi obiettivi, ma chiari e unificanti, come il salario garantito, l'abolizione del precariato in tutte le sue forme, inclusa la regolarizzazione degli immigrati costretti a lavorare in nero, la riconquista dei contratti nazionali di lavoro e il recupero del potere d’acquisto, la cancellazione delle norme su Lavoro e Previdenza insite nella manovra del governo.
 
E' la linea del "Piave proletario", che può e deve coniugare determinazione classista e logiche antisettarie, dentro un filone operaio di organizzazione trasversale, oggi ancor più urgente.
Questa sfida investe i rivoluzionari e non i "sindacalisti".
 
O la risalita immediata, o l'autoconsolazione delle chiesuole "comuniste". Non c'è tempo da perdere.
 







Pubblicato su: 2011-10-08 (1446 letture)

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