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N°26 Pagine Marxiste - Gennaio 2011
meno futuro per i giovani
La riforma Gelmini

 Se per un giovane la scelta della facoltà sembra essere la scelta del proprio futuro, nella gran parte dei casi sarà in realtà la società a determinarlo. L’università italiana produce meno laureati delle università degli altri paesi industrializzati, ma la società italiana, fatta di piccole imprese con limitate capacità tecnologiche, ne assorbe ancora meno. Per questo un buon numero di laureati svolge mansioni non confacenti alla sua qualifica, e una parte considerevole cerca lavoro all’estero, mentre il sistema italiano non è in grado di utilizzare le conoscenze di gran parte dei laureati immigrati.

La riforma Gelmini non propone alcun rimedio alla situazione di fatto. Chiude la fase della scolarizzazione di massa in Italia. Rientra in una tendenza della borghesia europea a ridurre la spesa statale per aumentare la competitività e concentrare quindi le risorse sulle “Università produttive” (nel senso di brevetti ma anche di numero di laureati per spesa pro capite). La specificità italiana sta nella necessità di aumentare, parallelamente, attraverso un uso mirato dei fondi, il controllo sulla formazione dei “cervelli” di domani, aprendo nel contempo ampie possibilità di “affari” per i settori legati agli ambienti governativi e paragovernativi (Università private e quant’altro). E’ evidente come l’accesso democratico all’istruzione, il diritto alla realizzazione di sé e delle proprie aspirazioni, il “diritto a un futuro”, come scrivono gli studenti oggi sui loro cartelli, sono un optional per la borghesia italiana, come per tutte le borghesie.

 


Quello che oggi entra a pieno titolo nel dibattito educativo sono le necessità della concorrenza, la perdita di competitività dell’Italia nei confronti degli altri paesi europei in primis sul mercato europeo e quanto questo dipenda dalla carente formazione della forza lavoro. Forza lavoro che ormai può essere anche importata (aumentando il vantaggio perché in questo caso la si può rimandare a casa quando non serve più e perché i costi di formazione sono tutti a carico di altri stati). Forza lavoro che comunque deve costare il meno possibile alla voce uscite nel bilancio dello Stato. Ma nel progetto di riforma si riflettono tutte le carenze, le storture e le inefficienze del capitalismo italiano.
 
Il futuro dei laureati in Italia
Nell’analisi, fornita da Alma Laurea, della situazione dei laureati nel 2009, colpisce la considerazione che la crisi mondiale morde con particolare intensità in questo segmento del mercato del lavoro. Vi si legge che in Italia si delinea “un deterioramento nei mercati del lavoro che fa lievitare disoccupazione e scoraggiamento tanto più consistenti nel Mezzogiorno e fra le donne, e che colpisce soprattutto i più giovani”. Giovani che affrontano “lunghi, faticosi e costosi processi formativi” (prevalentemente a spese delle loro famiglie aggiungiamo noi), senza poi trovare sbocchi. I giovani, si dice, sono oggi in Italia una “risorsa scarsa” (pochi in un paese in rapido invecchiamento), e tuttavia bloccati nei loro sbocchi lavorativi da una “gerontocrazia inamovibile”. Nel finale l’analisi si fa ambigua. Nella maggior parte dei casi i “vecchi” vengono bloccati sul lavoro dalle recenti riforme pensionistiche; in più, quando finalmente riescono ad andare in pensione, il posto spesso invece di passare a un giovane, sparisce. La gerontocrazia cui si allude è probabilmente quella di certi baroni universitari, ma il motivo per cui nel 1980 i ricercatori assunti avevano mediamente 29 anni, nel 2008 ne hanno mediamente 39 dipende solo in minima parte dalla soggettività dei professori ordinari.
Per i giovani ricercatori la ricetta Gelmini è draconiana: se dopo 6 anni di ricerca non riescono a trovare posto come associati, se ne vadano altrove! Per gli altri basta ridurre il numero di chi si iscrive all’Università! Si tagliano del 30% le borse di studio (salvo proporre prestiti d’onore ai meritevoli), i fondi alle Università si riducono di un miliardo e 400 milioni di € (e quindi aumenteranno le tasse universitarie e si ridurranno i servizi)!
L’articolista di Alma Laurea prospetta ai giovani la facile ricetta di “affrontare il nuovo e ad accettare la competizione fondata sulle capacità e sul merito, all’interno ed a livello internazionale”. Cioè fatevi piacere la precarietà a vita e preparatevi a farvi le scarpe l’un con l’altro. C’è chi promette che tutto cambierebbe con un nuovo governo. Ma i fatti hanno la testa dura: i giovani laureati non trovano lavoro non per improbabili conflitti generazionali, non perché sono incapaci, ma per le caratteristiche del mercato del lavoro, che si sono sedimentate nel tempo e che le crisi cicliche del capitale aggravano.
 
La cruda realtà dei numeri: pochi-troppi laureati
L’ISTAT e l’OECD da anni sottolineano che nell’intero arco della vita lavorativa, anche in Italia i laureati presentano un tasso di occupazione di oltre 10 punti percentuali maggiore rispetto ai diplomati (78,5 contro 67%). Anche la retribuzione premia i laureati che percepiscono il 55% in più dei diplomati nella fascia d’età 25-64 anni, in linea con quanto rilevato in Germania, Regno Unito e Francia. Ma nel 2009 sul 2008 il tasso di disoccupazione dei laureati è passato dal 14 al 21% (e nello specifico si va dal 25,6% dei laureati in lettere al 15% dei laureati in medicina). Eppure i laureati italiani, da sempre sono pochi: nella fascia d’età 25-34 anni sono il 19% contro il 34% degli altri paesi OCSE (e crollano al 9% nella fascia d’età 55-64 anni).
Sono pochi rispetto alla media dei paesi OCSE, ma sono comunque troppi per il mercato del lavoro italiano. Sempre Alma Laurea ci informa che su cento nuove assunzioni, il mercato del lavoro italiano richiede 12 laureati (negli Stati Uniti se ne chiedono 31!).
E come sono pagati? Il guadagno netto medio mensile di un laureato a un anno dalla laurea era nel 2009 1036 € in media (945 per le donne, 1174 per gli uomini). Rispetto al 2002 circa 100 € in più. Considerata l’inflazione, una retribuzione più leggera in linea con quanto accade a tutti i lavoratori italiani.
Ma naturalmente non tutti hanno un lavoro, a un anno dalla laurea solo il 48,7%. Nel 2002 lavorava il 56,8%. E fatti 100 quelli che nel 2009 lavoravano, il 32,4% ha un lavoro part time e quindi guadagna meno. Solo il 30,9% ha un lavoro a tempo indeterminato, molti di più hanno una condizione lavorativa a vari gradi di precarietà (il 21,2 a tempo determinato - il 17,7 a collaborazione - l’8,4% apprendistato – il 4,7% atipico). In nero lavora l’8,5%. Il resto (8,6%) svolge un lavoro autonomo. Un terzo circa dei laureati, nella speranza di migliorare le proprie prospettive e in mancanza di un lavoro nell’immediato, prosegue gli studi.
 
E’ dato incontrovertibile che il numero dei laureati cresce e sempre più giovani proseguono gli studi rispetto alle generazioni precedenti. Nel 1981 solo il 21,4% della forza lavoro italiana aveva un livello di istruzione pari o superiore alla qualifica. Oggi è il 57%. Il 75% dei neolaureati ha genitori non laureati. Un evidente salto e progresso generazionale nel livello di formazione complessivo.
 
Nell’inerzia dello Stato l’innalza-mento del tasso di istruzione è avvenuto per scelta e a spese delle famiglie. Il diritto allo studio in Italia infatti è garantito solo sulla carta. Dopo una fase di timido investimento su questo fronte (l’istituzione del presalario nel 1963), infatti lo Stato italiano delega a partire dal ’77 le competenze alle regioni. Il risultato è una forte disparità di trattamento, nonostante un tentativo di razionalizzazione nel 1991 con la Legge 390. Se nel 2001-02 erano 207 421 gli studenti a godere di una borsa di studio, nel 2007-08 erano 156 297, pari all’8,7% degli iscritti. Inoltre il gradi di copertura delle spese è passato dal 78,3% degli anni ’90 al 66% di oggi. Solo il 20% degli studenti circa può contare su un alloggio a prezzo di equo canone. E’ inoltre esperienza comune che in un paese in cui la norma è l’evasione fiscale del lavoro autonomo, il figlio del metalmeccanico risulta troppo ricco per una borsa di studio mentre il figlio del gioielliere spesso ne gode. In anni recenti le immatricolazioni universitarie sono in leggero calo (nel 2002 il 74,5 dei maturi si iscriveva all’Università, negli ultimi anni si attesta intorno al 68-70%). Pesa la diminuzione dei redditi delle famiglie, ma anche la scarsa resa economica del titolo di studio. Rilevava il rapporto Bankitalia del 2000, e vale anche oggi, che in Italia la forbice retributiva fra laureati e diplomati va riducendosi, nonostante il diverso costo di formazione del lavoro: secondo una ricerca di Miojob nel 1980 un laureato aveva una retribuzione lorda media del 55% superiore a quella di un diplomato; nel 2002 il divario era di + 12%; nel 2007 era di +8%.
 
Aumenta l’esclusione di chi proviene dagli ordini di scuola scelti dagli studenti provenienti da famiglie con reddito più basso (Istituti professionali e Istituti tecnici). Ancor più selettivo è il dato di chi arriva alla laurea: solo il 2,9% dei laureati proviene da un Istituto professionale; il 25,8% proviene da un Istituto tecnico; il 58,1% dai licei. Può essere di qualche interesse il fatto che il 58% dei laureati è donna, indice della maggiore difficoltà a trovare lavoro per una donna, se priva di titolo di studio.
 
Riassumendo il numero dei laureati italiani è inferiore alla media degli altri paesi OCSE, ma è comunque superiore alle capacità di assorbimento del mercato del lavoro italiano. Si conferma il quadro del 2000, prima della cosiddetta “riforma 3+2”. Anche lo sbocco lavorativo offerto dall’Università o dalla ricerca per i più è oggi una chimera. Di questo i giovani sono sempre più consapevoli e per questo protestano. Alcuni con l’illusione che un correttivo introdotto da un governo diverso potrebbe cambiare la situazione.
Il realtà la radice del problema sta nella struttura produttiva del capitalismo italiano. Un paese dove la grande industria si riduce a pochi nomi e prevale un tessuto di piccole e medie imprese, con un basso tasso di innovazione tecnologica e una preferenza per una formazione professionale molto specifica, e quindi un modesto bisogno di laureati. Un paese dove negli anni ’80 lo sbocco occupazionale tradizionale per i laureati era quello del pubblico impiego, uno sbocco che oggi, dalla scuola alla sanità, si sta riducendo drasticamente per ragioni di cassa. Ci vuol altro che un rimpasto governativo per cambiare rotta!
 
La fuga dei cervelli
E’ ormai argomento di dibattito televisivo che quindi i laureati migliori vanno all’estero. La cosiddetta “fuga dei cervelli” è il cavallo di battaglia della sinistra parlamentare (si dice; in Italia non si fa ricerca, non si investe nella ricerca, così regaliamo ai paesi stranieri il frutto della creatività dei nostri giovani, qualcuno ha calcolato in 3,9 miliardi di € la “perdita” degli ultimi 10 anni per brevetti realizzati da studiosi italiani all’estero). In questo modo la sinistra parlamentare si candida ad essere la migliore interprete delle esigenze del capitale italiano.
Ma che dimensioni ha il fenomeno? E’ interesse della borghesia italiana una inversione di tendenza?
Il SIR World Report 2010 che pubblica una classifica mondiale delle istituzioni che si occupano di ricerca prende in esame 2833 istituzioni che hanno realizzato nel 2004-08 l’80,55% della produzione scientifica nel mondo, tradotta poi in brevetti, innovazione tecnologica e produttiva ecc. Solo 85 di queste istituzioni sono totalmente private (a dimostrazione che c’è bisogno dell’investimento dello Stato per ottenere un livello adeguato di risultati). Il 65% di queste istituzioni appartengono a 10 paesi.
Primi gli Usa con 485 istituzioni (pari al 17,1%). Seguono la Cina con 247 (8,7%), il Giappone con 175 (6,2%), la Gran Bretagna con 144 (5,1%), la Francia 136 (4,8%), la Spagna 135 (4,7%), Germania e Italia ne hanno entrambe 124 (4,4%), l’India 102 (3,6%).
Come si vede la classifica quantitativa corrisponde grosso modo alla classifica del PIL mondiale e al peso economico dei vari paesi nel mondo. L’Italia è presente nelle prime 200 con 9 istituzioni, contro 6 della Germania, 5 della Francia, 12 della Gran Bretagna, 76 degli Usa e 22 cinesi.
Nelle successive 200 ci sono 7 istituzioni italiane, contro 22 della Germania, 3 della Francia e 10 della Gran Bretagna. Le Università italiane producono pubblicazioni che hanno un livello di diffusione internazionale vicino a quello medio delle Università di pari dimensione, ma nettamente inferiore a quello di Università americane, inglesi o tedesche. Potrebbe sembrare un problema di qualità dei ricercatori.
Il realtà a fronte di una media OCSE di 7,43 ricercatori per mille occupati, l’Europa ne occupa mediamente 5, gli Usa 9,72, il Giappone 10,2. A livello europeo l’Italia è il fanalino di coda con 3,56 ricercatori su 1000 occupati, contro i 7,15 della Germania, gli 8,33 della Francia e gli oltre 10 ricercatori di Danimarca e Finlandia. Per quanto riguarda l’investimento nella ricerca l’Italia è, tra quelli avanzati, uno dei paesi con il più basso livello nel rapporto tra R&S e PIL, pari a circa l’1,2%, contro il 2,5% della Germania, il 2,1% della Francia o il 2,7% degli Stati Uniti. Di conseguenza nel 2007 sono stati depositati 12,7 brevetti per milione di abitanti in Italia, contro i i 27 del Regno Unito, i 40,5 della Francia e i 74,6 della Germania. Per produttività pro capite comunque i ricercatori italiani nel gruppo OCSE sono terzi dopo inglesi e canadesi. Peccato che la maggior parte dei brevetti sia prodotto dalle industrie e non dalle Università (da “European Innovation Scoreboard 2009”).
Sull’entità numerica della “fuga dei cervelli” non esistono dati certi ma solo stime. Secondo i dati dell’OCSE i lavoratori italiani altamente qualificati che lavorano fuori dai confini italiani sono poco meno di 400 000: il 7% della popolazione italiana in possesso di laurea. Non è una percentuale molto alta. La media europea è del 14%. La percentuale invece è molto più alta nel campo della ricerca scientifica: lavorano all’estero circa il 25% dei ricercatori italiani in campo scientifico, una percentuale considerata comunque accettabile. La circolazione della manodopera ad alta qualificazione è considerata proficua, purché le entrate e le uscite nel paese si pareggino. Nel caso dell’Italia il problema sta nel fatto che non c’è una entrata di manodopera qualificata corrispondente a quanta si reca all’estero e soprattutto che i “cervelli” che da giovani si recano all’estero tendono a rimanerci. Sui laureati presenti in Italia solo il 2,3% sono stranieri (contro il 10,8% in Francia, l’11,5% in Germania, il 17,3% in Gran Bretagna). Gli stranieri impegnati in programmi avanzati di ricerca scientifica in Italia sono solo il 4,3%, contro il 14,5% della media europea, il 34,4% della Francia e, addirittura, il 41,4% della Gran Bretagna. E quel che è peggio nulla li trattiene, per una serie di ragioni fra cui la burocrazia, la povertà dei finanziamenti, le basse retribuzioni, il clientelismo nella distribuzione dei fondi e la mancanza di infrastrutture e strumenti adeguati. D’altro canto il programma per incoraggiare i rientri degli italiani dall’estero è stato sospeso nel 2006 per mancanza di fondi. Quindi la “perdita” prima citata di 4 miliardi di € è una pura boutade, dal momento che i ricercatori italiani che oggi operano all’estero in patria forse non avrebbero inventato nulla, mancando di laboratori, di mezzi e anche delle gratificazioni necessarie.
Se oggi le istituzioni di ricerca italiani reggono ancora il confronto è perché godono di una rendita dovuta alla presenza di ricercatori che per motivi d’età presto si ritireranno, sostituiti da altri forse selezionati sulla base delle regole di parentopoli. Sotto il profilo della competitività questo è un problema per la borghesia italiana, cui peraltro molti preannunciano una rapida retrocessione nelle classifiche mondiali del PIL fuori dal gruppo dei primi 10 paesi.
Dato il livello del deficit statale, è improbabile che l’Italia possa invertire significativamente a breve il trend degli investimenti nella ricerca. Ha sempre speso meno degli altri paesi sia nel fornire istruzione (lo 0,88% del PIL all’Università mentre gli obiettivi di Lisbona fissavano al 2% i livelli minimi da assegnare), sia nell’aiuto alle famiglie per far studiare i giovani e continuerà a spendere poco. Quanto a parentopoli, al di là dell’impegno formale sulla carta esibito da Gelmini come dai suoi predecessori, si può supporre che all’ombra del familismo italico, la pratica del nepotismo prosegua ancora a lungo.
Tuttavia nell’ultimo ventennio ci sono stati ben tre (il ben si riferisce alle tradizioni italiane) tentativi di riforma dell’Università.
 
Le riforme dell’Università
negli ultimi venti anni
A metà degli anni ’90 abbastanza unanimemente vengono segnalate le manchevolezze dell’Università italiana. E’ una università inefficiente: benché la percentuale dei diciannovenni che si iscrivono all’università sia bassa (43% nel ’95) la percentuale di abbandoni è del 60% contro una media europea del 32%. Fra il 1960 e il 2000 si sono iscritti 9.187.154 giovani all’Università e se ne sono laureati 2.933.847 cioè il 31,93%; contro una durata formale di 4-6 anni, gli anni in media necessari alla laurea sono 7,8.
L’età media alla laurea è di 27,5 anni contro i 23 della media europea. Un anno si perde perché ci si diploma a 19 anni, il resto per pregresse bocciature e ritardi universitari. Quindi i laureati italiani entrano troppo tardi nel mondo del lavoro, questo rende più difficile addestrarli e adattarli alle esigenze del mercato!
Infine, si afferma, l’Università sforna troppi laureati nelle facoltà umanistiche rispetto alle lauree tecnico-scientifiche.
 
Nel 1990 c’è l’introduzione delle lauree triennali specialistiche, con un buon successo soprattutto in campo sanitario. Gli ambienti industriali auspicano una soluzione analoga per ingegneria, per avere tecnici laureati più giovani e più flessibili. Per la legge del minimo sforzo politico, sperando che alcune Università adottino la proposta, con la legge 127 del 1997 Bassanini dà agli atenei l’autonomia negli ordinamenti didattici dei corsi di studi.
Da quel momento non c’è più omogeneità nei corsi di studi a livello nazionale.
A livello europeo nel maggio ’98 si stila l’accordo della Sorbona (firmato da Italia, Francia, Belgio, Gran Bretagna) in cui si prefigura una convergenza fra i corsi di laurea europei e si affronta il problema del riconoscimento del valore legale delle lauree. Si trova un accordo nell’istituire una laurea triennale (di base) e una quinquennale (specialistica), cui possono seguire percorsi di alta formazione professionale. Nel ’99 la riforma è avviata in Italia, per il governo dell’Ulivo, da Berlinguer e completata da Zecchino. L’obiettivo dichiarato, oltre all’introduzione del “3+2” (tre anni di laurea breve e 2 di laurea specialistica), è di abbreviare i tempi di conseguimento del titolo di studio e ridurre gli abbandoni, facilitare la mobilità degli studenti a livello nazionale e internazionale attraverso l'introduzione del sistema dei crediti (in teoria riconosciuti nelle università europee). Si spera di fare entrare nel mercato del lavoro un alto numero di giovani con laurea triennale pagandoli come diplomati), ridurre il numero di laureati con cinque anni di studi, riducendo i costi).
La riforma del 3+2 parte nel 2001-2002. Nell’immediato aumenta il numero dei laureati (dal 38,5% degli immatricolati nel ’98-’99 al 61,1% nel 2002-03); infatti molti fuori corso hanno approfittato dei crediti e della laurea triennale per acquisire un titolo. Ma le università interpretano la riforma a loro uso e consumo: vedono nelle lauree triennali l’occasione di mettere in pari i loro bilanci e aumentare le entrate, senza troppo preoccuparsi della qualità dei corsi. C’è una proliferazione di corsi di laurea triennali (ben 3800 diversi) che non tengono conto della reale possibilità di acquisire titoli spendibili sul mercato del lavoro e quindi con alto rischio di disoccupazione (restano famosi i corsi di laurea in “Igiene e benessere del cane e del gatto”, quello di “divulgatore ambientale” ecc.). Il percorso di studi si allunga per i vari esami-catenaccio che obbligano a un anno di arresto negli studi tra laurea triennale e laurea specialistica. L’eterogeneità dell’offerta rende difficile agli studenti spostarsi da una Università all’altra e rende difficile valutare ed equiparare i titoli di studio.
Fallisce l’intento di rendere dominante la laurea triennale: solo il 29% degli studenti si ferma a quel livello, infatti la triennale non ottiene riconoscimento giuridico per l’insegnamento, è considerata superflua dalle aziende, inadeguata da molti ordini professionali e dalla stessa Pubblica Amministrazione. Il corso di studi si allunga perché gli studenti devono affrontare due corsi di laurea e fra l’una e l’altra spesso si fermano un anno.
 
Nel frattempo il centrodestra è tornato al governo. Il nuovo ministro dell’istruzione Moratti prepara dei correttivi. Nella Circolare 995 del 2003 propone un tetto massimo di studenti per corso di laurea, impone che sia garantito un numero minimo di lezioni tenute da docenti di ruolo (fra ordinari, assistenti e ricercatori) per porre fine allo scandalo di corsi con più di 300 studenti, oppure tenuti da dottorandi. Ma poiché in nome dell’efficienza si premiano le Università che sfornano più laureati, alcune Università prestigiose e alcune facoltà che danno accesso a professioni più lucrose (ad es. giurisprudenza, ma anche medicina) si oppongono al ciclo di studi spezzato difendendo i vecchi ordinamenti. Nel 2004 Moratti tenta allora una riforma che separi nettamente il percorso della laurea triennale da quella della laurea magistrale quinquennale. La laurea triennale avrebbe dovuto essere orientata al “saper fare”, la laurea Magistrale al “sapere”. Il tentativo Moratti naufraga per l’opposizione della CRUI, la potente conferenza dei rettori universitari, e in particolare per l’opposizione dei Politecnici. Moratti del resto sconta l’ambizione di realizzare una riforma a costo zero, senza ulteriore investimento da parte dello Stato (ormai scuola e università sono sotto il rigido controllo del Ministero delle Finanze). Le Università statali sono contrarie alla distribuzione generosa di fondi alle università private. Altre proposte della Moratti come quella della Riforma dello stato giuridico degli insegnanti o della trasformazione delle Università in Fondazioni si arenano.
 
Nei due anni del governo Prodi bis (maggio 2006-maggio 2008) il ministro Mussi dopo brillanti promesse (lotta a parentopoli, cioè il sistema delle assunzioni clientelari; svecchiamento del corpo docente con la promessa di assumere diecimila ricercatori in tre anni; più risorse per la ricerca) viene stoppato dalle necessità di bilancio e dalle liti interne alla coalizione. Ottiene un lieve aumento dei fondi e l’assunzione di 4 mila ricercatori. Ma molte Università evitano di assumere a tempo indeterminato (preferendo i contratti a progetto) per non rispettare le nuove regole di reclutamento.
 
La Riforma Gelmini
Il IV governo Berlusconi eredita, per buona parte da se stesso, un’Univer-sità che ha in parte migliorato la sua “produttività” rispetto agli anni ’90 (aumentato il numero di laureati, + 22,5% nel 2009 sul 2001; aumentata la frequenza alle lezioni; migliorato il rapporto con il mondo produttivo triplicando le esperienze di stage durante gli studi, stage che riguardano il 54,5% dei laureati contro il 17,9% del 2001). Ma è un’Università che vive sfruttando il lavoro malpagato di dottorandi e ricercatori. Un ricercatore italiano con un'esperienza lavorativa tra 0 e 4 anni guadagna circa 12 500 euro l'anno contro i 17 mila della Spagna, i 30 500 del collega francese ed i circa 24 000 di quello tedesco. Al contrario la ristretta cerchia degli ordinari italiani, a fine carriera, hanno una retribuzione del tutto comparabile agli stipendi dei professori delle università americane (dell’ordine di 100 000 euro lordi all’anno, indipendentemente da quanto lavorino).
 
Questo spiega perché a fianco degli studenti siano scesi in piazza appunto i ricercatori; alcuni dei meno giovani andranno in pensione da ricercatori, i più giovani hanno la prospettiva di perdere semplicemente il posto: ne saranno assunti 4 500 come associati, a fronte di circa 70 mila attualmente presenti con status, contratti e retribuzioni fortemente diversificati. Ai ricercatori potranno essere attribuiti contratti temporanei per un massimo di 6 anni e poi o dovranno essere stabilizzati o licenziati. Vengono promesse in cambio retribuzioni rivalutate e carriere sulla base del merito. Anche i dottorati verranno fortemente ridotti di numero.
 
Gelmini aspira a presentarsi da un lato come moralizzatrice rispetto ai baroni: ad es. limita ad 8 anni il mandato dei rettori (l’attuale rettore di Brescia va in pensione dopo 27 anni di servizio …). Le competenze del Senato accademico vengono limitate alle scelte didattiche. Grazie al voto congiunto con l’opposizione è passata una norma contro “parentopoli”, la pratica per cui i pochi posti disponibili toccano ad amici e parenti dei “baroni”, scelta giusta ma che può essere facilmente aggirata. I membri delle commissioni che devono reclutare i professori saranno sorteggiati e i candidati dovranno conseguire un’abilitazione in sede nazionale in base a concorsi per titoli. Ma il reclutamento passa prevalentemente nelle mani degli ordinari e al Consiglio di Amministrazione dove peserà il parere di politici e finanziatori privati. Il potere decisionale e la gestione delle risorse si concentra nelle mani del Rettore e del Consiglio di Amministrazione.
Altre norme mirano a razionalizzare le spese: ridotti i corsi di laurea, con possibilità di partnership fra Università vicine per evitare doppioni; stabilito un numero minimo di studenti per attivare un corso; fissato il numero minimo di lezioni del docente; ridotto a 12 il numero massimo di Facoltà per Ateneo.
Vengono eliminati gli ostacoli, oggi assurdamente numerosi, alla mobilità degli studenti da una Università all’altra.
Si prevedono nuclei di valutazione dell’efficacia della didattica e la qualità della ricerca di ogni Ateneo
Resta il fatto che il DDL Gelmini è per ora una scatola vuota con ambizioni molto alte ma solo dichiarate e una realizzazione rimandata nel decennio successivo (le 500 norme avranno infatti bisogno di 100 regolamenti attuativi). Come già la Moratti, Gelmini deve attuare una riforma a costo zero, quindi i tagli immediati sono certi, gli investimenti futuri, come si è già visto nella scuola, del tutto ipotetici.
 
Il movimento degli studenti
Come nel 2008 gli studenti sono scesi in piazza, stavolta più organizzati e attenti a gesti di forte valore comunicativo e mediatico, come l’occupazione del Colosseo e della torre di Pisa, coordinati in tutta Italia. Le manifestazioni sono state incoraggiate dalle opposizioni, che le hanno viste come una pressione di piazza da affiancare al tentativo di sfiduciare il governo Berlusconi (non casuale la manifestazione nazionale fissata per il 14 dicembre). Una parte degli studenti ha subito questo condizionamento e limitato le attese al cambio di governo (peraltro sfumato a breve, visto che la campagna acquisti di Berlusconi gli ha consentito di ottenere per 3 voti la fiducia alla Camera). Molti studenti però si sono mossi al di fuori delle logiche parlamentaristiche. Rifiutano la delega del loro destino alla politica tradizionale, verso cui esprimono sempre più sfiducia, per il cinico trasformismo di certi parlamentari, pronti a cambiar casacca per il miglior offerente. Molti riflettono sull’incertezza del loro futuro, altri già da studenti sono costretti a lavorare per pagarsi gli studi e verificano di persona quello che questa società offre ai giovani. Una riflessione non dissimile da quella dei loro coetanei inglesi che hanno invaso Londra in tempi recenti. A dimostrazione che le varie ricette e gradazioni liberiste o stataliste approdano allo stesso risultato sociale in tempo di crisi: l’aumento dei costi di istruzione, la fine dell’illusione che l’Università funga da ascensore sociale garantito. E’ l’occasione per gli studenti per una riflessione complessiva sul ruolo dell’università e sul loro destino di futuri lavoratori e membri di questa società. In una società che ha il profitto come misura di ogni valore e che mette l’uomo fra le forze produttive secondo una logica dell’usa e getta (e questo vale per il metalmeccanico come per lo studente universitario) ogni logica di “riforma” va ricondotta a interessi concreti, ogni forza sociale in movimento diventa necessariamente corporativa se non si lega a una visione complessiva della società italiana ora e qui.
 







Flora Tristan

Pubblicato su: 2011-01-28 (1439 letture)

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