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N°23 Pagine Marxiste - dicembre 2009
Profitti in ripresa, disoccupati in aumento Un primo bilancio della crisi
I capitalisti del mondo tirano un sospiro di sollievo: il peggio è passato, la ripresa dei profitti è in corso. Per i lavoratori disoccupati, aumentati di decine di milioni nel mondo e ancora in aumento, la notte della crisi è sempre più buia.
Questo il quadro sociale della “grande recessione” che chiude questo primo decennio del nuovo millennio.
Le lotte nella crisi sono destinate ad aumentare, e un intervento cosciente dei comunisti può farvi crescere la coscienza di classe.
La ripresa dei profitti è resa possibile proprio dall’aumento dei disoccupati, cioè dal taglio del numero degli occupati e dall’aumento dello sfruttamento di quelli che restano.
Anche se la crisi è partita dalla finanza, diversi tra i maggiori istituti finanziari sono stati salvati dall’intervento e dal denaro pubblico, negli USA come in Gran Bretagna, Germania, Francia, Austria ecc. - e ora stanno registrando una forte ripresa dei profitti.
Ad essere investita maggiormente dalla crisi è stata invece l’industria, colpita soprattutto dal crollo degli investimenti privati, solo in parte attutito dall’aumento di quelli pubblici con i pacchetti di “stimolo fiscale”.
Nel 2009 il PIL (Prodotto Interno Lordo) complessivo dei paesi OCSE (paesi industrializzati più Turchia e Messico) è diminuito del 4,1% circa (stime OCSE di novembre), mentre gli investimenti complessivi nell’area sono caduti dell’11,1%, e quelli fissi non residenziali (sostanzialmente impianti e macchinari) del 16,3%.
Variazione % 2009 sul 2008
Produz. Industriale
PIL
Cina
19,2
8,2
India
10,3
5,5
Indonesia
2,8
4,2
Brasile
-3,2
0,0
Francia
-8,4
-2,1
USA
-5,1
-2,5
Area Euro
-11,1
-3,8
Gran Bret.
-8,4
-4,5
Italia
-11,8
-4,8
Germania
-12,4
-4,9
Giappone
-3.9
-5,4
Messico
-5,2
-7,1
La caduta
degli investimenti
Variaz. % 2009 su 2008
Francia
-6,8
Germania
-14,1
Italia
-19,3
Giappone
-18,0
Corea
-1,9
Gran Bretagna
-19,5
Stati Uniti
-17,8
Area Euro
-13,2
Totale OCSE
-15,4
Formazione lorda di capitale fisso non residenziale
Per questa ragione le metropoli europee e quella giapponese, più industriali e forti esportatrici di mezzi di produzione, hanno visto cali maggiori del PIL nel 2009 (intorno al -5% per Giappone, Germania e Italia) rispetto a quella americana (-2,5%), dove l’industria pesa meno. Nella seconda metà dell’anno le metropoli sono entrate in ripresa, ma passeranno diversi trimestri prima che vengano raggiunti i livelli produttivi pre-crisi – e ancora più tempo per quelli occupazionali. Nelle metropoli la crisi lascia un “buco” di almeno il 10% di minore produzione (intorno alla metà del 2009 nell’area euro la capacità produttiva industriale era utilizzata solo al 69,5% contro una media di lungo periodo dell’81,5%): un’enorme distruzione e spreco di forze produttive, a cominciare dalla forza lavoro con i tassi di disoccupazione in America ed Europa ormai intorno al 10% e ancora in aumento, ma considerando anche i lavoratori scoraggiati e coloro che sono costretti al part-time siamo intorno al 18%.
L’Economist, la rivista che dai tempi di Marx rappresenta una sintesi della coscienza della borghesia anglosassone, sintetizza così l’esperienza della crisi: “La recessione è stata meno calamitosa di quanto molti temessero. I suoi postumi saranno più pericolosi di quanto molti si aspettino. E’ divenuta nota come la “Grande Recessione”, l’anno in cui l’economia mondiale ha sofferto la sua più profonda caduta dalla Seconda Guerra Mondiale. Ma un nome altrettanto appropriato sarebbe la “Grande Stabilizzazione”. Perché il 2009 è stato straordinario non solo per come è caduta la produzione, ma per come è stata sventata una catastrofe”. Diversamente che negli anni ’30 “il declino è stato arginato nel giro di pochi mesi”.
“Questo esito non era inevitabile. È stato il risultato della più grande, estesa e rapida risposta governativa della storia. Banche barcollanti sono state avviluppate in un bozzolo protettivo di trilioni di dollari di denaro e garanzie pubblici. Le banche centrali hanno tagliato i tassi di interesse; le maggiori hanno espanso i loro bilanci. I governi di tutto il mondo hanno abbracciato con gusto gli stimoli fiscali … Senza di ciò la Grande Recessione avrebbe potuto essere una Depressione”.
Il senso dello scampato pericolo è forte nella borghesia, e insieme alla soddisfazione per il fatto che gli Stati hanno adempiuto al ruolo di “ultima ancora di salvezza” per il capitale c’è anche il recedere di una vanagloriosa presunzione dei cantori del capitalismo. Sono caduti i miti alimentati da un ciclo di espansione durato più di sessant’anni, il mito della fine del ciclo espansione-crisi, della capacità di autoregolazione del capitalismo e del libero mercato; miti che hanno dominato pressoché incontrastati nell’ultimo ventennio seguito al crollo del capitalismo di Stato russo (e della mitologia del falso comunismo), e che si sono infranti proprio contro le conseguenze del libero e sfrenato agire degli “spiriti animali” del capitalismo.
Pagano i lavoratori
Nella crisi è finora mancata la voce e l’azione indipendente del movimento operaio. I sindacati e i partiti che controllano la classe lavoratrice hanno svolto azione di supporto ai salvataggi operati dagli Stati, che hanno di fatto trasferito centinaia di miliardi di dollari a banchieri e operatori della finanza e alla rendita finanziaria. Dopo essersi arricchiti nella fase della bolla gli Stati hanno loro coperto le perdite nella fase di sboom: un trasferimento di ricchezza pagato dai lavoratori salariati di tutto il mondo.
Le lotte operaie sono finora state necessariamente difensive – la difesa del posto di lavoro, di una garanzia salariale – e isolate, perché le grandi organizzazioni sindacali hanno un atteggiamento di collaborazione nei confronti della classe dominante ed evitano di generalizzare lotte e rivendicazioni per far pagare la crisi alla borghesia. Da queste lotte locali, qua e là riparte una presa di coscienza di classe che è compito dei comunisti aiutare a crescere, anche perché si tratta ormai di una generazione di salariati che non ha esperienza diretta di grandi lotte, e ancora lontana dalle masse proletarie è la consapevolezza che questo modo di produzione va rovesciato per far posto a una società dove la produzione sia direttamente sociale, non finalizzata al profitto e non fondata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Laddove i governanti hanno varato misure per attutire le conseguenze della disoccupazione (estensione di indennità di disoccupazione, cassa integrazione, orario ridotto), non è stato finora per disinnescare lotte che minacciassero di rovesciare il sistema, ma perché restando a lungo inutilizzati i disoccupati rischiano di divenire inutilizzabili quando fra qualche anno la ripresa richiederà nuove braccia (secondo uno studio dell’OCSE, due terzi dei lavoratori che restano disoccupati per più di un anno sono persi per il mercato del lavoro). L’esercito industriale di riserva va in qualche modo tenuto in vita. Finora sono bastate briciole rispetto ai salvataggi bancari e alle spese di “stimolo”. Ma nelle metropoli, compresa quella italiana, questo esercito di senza lavoro è destinato ad aumentare ancora perché ci vorranno parecchi mesi di ripresa prima che le imprese siano costrette ad assumere. Il governatore della Banca d’Italia, Draghi, è intervenuto per denunciare che 1,2 milioni di lavoratori dipendenti e 450 mila “parasubordinati” sono privi di ammortizzatori sociali e ha chiesto una copertura generalizzata. Questo esercito tuttavia è in parte anestetizzato dagli ammortizzatori, e fortemente frammentato tra giovani in cerca di prima occupazione, immigrati che rischiano di perdere il permesso di soggiorno o che non l’hanno mai avuto, lavoratori a termine con contratto scaduto, lavoratori in CIG, in CIGS, in mobilità … Solo un intervento politico cosciente a partire dal territorio può cercare di collegare questi lavoratori tra loro e con i lavoratori occupati, trasformare quello che per ciascuno è un dramma individuale, di chi è respinto dal mercato del lavoro, in una lotta collettiva. Crescita asiatica
Il massiccio intervento degli Stati, il fatto che la classe dominante, anche se non può evitare le crisi ha imparato la lezione degli anni ’30, è però solo uno dei fattori che ha impedito l’avvitarsi della crisi in una spirale come 80 anni fa. L’altro fattore, altrettanto decisivo, è la dinamica sostenuta dell’economia dei paesi emergenti asiatici. Grazie alla loro espansione, già nel secondo trimestre del 2009 l’economia mondiale aveva ripreso a crescere del 3%, nonostante le metropoli fossero ancora in recessione.
Secondo le stime più recenti a fine 2009 l’economia cinese registra una crescita dell’8,2%, quella indiana del 5,5%, l’Indonesia del 4,2%. In Cina lo Stato ha gettato sul piatto una parte delle enormi riserve rilanciando gli investimenti pubblici per compensare la caduta della domanda esterna, cioè delle esportazioni, mentre la domanda interna è continuata ad aumentare, spinta anche dall’espansione del credito e da incentivi al settore immobiliare e automobilistico. Un rilancio che non è stato indolore, perché la caduta del 20% dell’export ha falciato decine di migliaia di imprese della fascia costiera gettando sul lastrico qualche decina di milioni di operai.
In India – meno investita dalla crisi data la bassa dipendenza dall’export - è proseguito lo sviluppo capitalistico endogeno alimentato dall’ampia disponibilità di forza lavoro, sia di provenienza rurale che ad elevata qualificazione.
Questa dinamica asiatica ha posto un argine alla caduta del commercio mondiale e dei prezzi delle materie prime industriali e alimentari, innescando però anche un nuovo boom speculativo, immobiliare e finanziario (soprattutto in Cina), e sta fornendo capitali e mercati per salvataggi industriali e investimenti nelle stesse metropoli (dalla Volvo all’industria elettrica USA).
Anche se qualche economista razionalista vede la crisi come processo di riequilibrio dell’economia mondiale, nella realtà essa alimenta nuovi squilibri. Da un lato si accentua l’ineguaglianza dello sviluppo, con crolli del prodotto lordo superiori al 15% in regioni dell’Est Europeo come i Paesi Baltici e l’Ucraina, cadute del 5-7% in Russia, Ungheria, Turchia e Messico, mentre il Brasile, l’Argentina e altri paesi latino-americani e la Polonia limitano i danni, e altri paesi come Egitto e Pakistan registrano crescite significative. In generale si accelera il mutamento nei rapporti di forza tra gli Stati, con l’ascesa anche sulla scena politica dei “paesi emergenti”, come dimostrato dal ruolo crescente del G-20 e dal ruolo assunto da Cina, India, Brasile e Indonesia al vertice di Copenhagen sul mutamento climatico, dove l’accordo di questi paesi con gli Stati Uniti ha marginalizzato il blocco europeo. L’Europa non uscirà dalla crisi meno indebolita degli Stati Uniti, che la precedono nella ripresa (nel terzo trimestre 2009, grazie ai licenziamenti la produttività dei lavoratori non manifatturiera è aumentata del 9,5% su base annua, con un calo del 5,2% del costo del lavoro per unità di prodotto, il che significa un notevole aumento dei margini di profitto sulla pelle dei lavoratori). Aumenta il debito pubblico
Dall’altro lato lo stesso intervento degli Stati con salvataggi e stimolo fiscale, in aggiunta alle conseguenze della crisi, sta portando ad elevati deficit e debiti pubblici, che segnano nuovi squilibri per il prossimo decennio. Secondo il Fondo Monetario le misure discrezionali prese dagli Stati del G-20 sono pari al 2% del PIL nel 2009 e all’1,5% nel 2010 (i maggiori pacchetti sono stati stanziati in Asia, Medio Oriente e USA). Misure consistenti ma non tali da compensare l’impatto della crisi sulla domanda e la produzione. Ma provocando minori entrate fiscali e maggiori uscite (ad es. per le indennità di disoccupazione) la crisi fa aumentare i deficit pubblici mediamente di una misura pari al 6% del PIL nelle metropoli.
Stati Uniti e Gran Bretagna registreranno deficit dell’11-12% del PIL, gli Stati dell’area euro superiori al 6%, e non si prevede il rientro in breve tempo per non pregiudicare la ripresa. Nella media delle metropoli, il debito pubblico risalirà dall’80% al 110% del PIL nel 2014 (dal 62% al 108% per gli USA, dal 167% del 2007 a oltre il 200% per il Giappone; l’Italia, che non era ancora scesa sotto il 100%, si è trovata con ridotti margini di manovra). In pochi anni viene vanificata l’azione di risanamento dei conti pubblici che nelle principali metropoli aveva richiesto un quarto di secolo. La spesa pubblica si sostituisce a quella privata per impedire il crollo della domanda, l’indebitamento pubblico a quello privato. Gli squilibri sono trasferiti, non sanati. E come sempre il successivo risanamento verrà caricato sulle spalle dei lavoratori. Tra le vie d’uscita future non viene esclusa una grande inflazione (contemplata da uno studio della Federal Reserve), che svaluterebbe il debito, oppure il ripudio del debito stesso.1 Crisi finanziaria non risolta
Uno studio di Gian Maria Milesi-Ferretti del Fondo Monetario Internazionale fornisce una serie di dati utili a comprendere la dinamica internazionale della crisi:
Tra il 1998 e il 2007 i flussi internazionali di capitali sono aumentati dal 5% al 17% del prodotto mondiale. Tale fortissima internazionalizzazione del capitale ha comportato una molto più rapida propagazione della crisi.
Nello stesso decennio le attività (crediti, possesso di titoli, ecc.) e passività finanziarie (debiti, titoli venduti, ecc.) delle “economie sviluppate” sono raddoppiate in rapporto al PIL, salendo al 220% (in parte per il rigonfiamento delle quotazioni di Borsa – capitale fittizio). Tale enorme aumento dei rapporti di credito e debito ha accresciuto l’instabilità del sistema.
Le attività e passività estere delle banche che riferiscono alla Banca dei Regolamenti Internazionali sono quasi triplicate in dollari tra fine 2001 e fine 2007. L’aumento dell’attività delle banche ha pesato per oltre la metà dell’espansione dei rapporti di debito e credito (crediti e obbligazioni) internazionali, avvenuta anche attraverso l’internazionalizzazione delle banche stesse (acquisizione di filiali estere). I contraccolpi della crisi dei “subprime” si sono ripercossi con forza in Europa, perché i titoli privati garantiti da ipoteche (tra cui i “subprime”) emessi soprattutto in USA sono stati acquistati principalmente in Francia, Germania, Svizzera, Gran Bretagna, Belgio e Olanda, mentre non hanno investito significativamente i paesi emergenti né il Giappone. Le perdite dirette relative ai prestiti ipotecari, pur quantitativamente inferiori a quelle dovute alla caduta dei corsi azionari, hanno tuttavia avuto un effetto a catena provocando vendite di titoli per la ricopertura, che a loro volta hanno provocato pesanti cadute dei prezzi dei titoli. Insieme all’incertezza sulla distribuzione delle perdite, ciò provocò il prosciugamento del mercato interbancario e del credito in generale.
Per i “paesi emergenti” la crescita dei rapporti finanziari internazionali è stata meno forte, ma soprattutto c’è stato un cambiamento qualitativo: l’afflusso di capitali si è spostato dai prestiti agli investimenti diretti di portafoglio, mentre i debiti esteri sono diminuiti dal 47 al 34 per cento del loro PIL (particolarmente forte nel decennio è stato il rientro dal debito estero dei paesi dell’America Latina e asiatici). Anche per questo i paesi emergenti si sono rapidamente ripresi dopo le svalutazioni delle loro divise, diversamente che nella “crisi asiatica” del 1998, quando erano fortemente indebitati in valute forti. I paesi detentori di grandi riserve in dollari, come la Cina e paesi petroliferi hanno investito soprattutto in titoli pubblici USA, e quindi non hanno subito perdite tranne che per effetto dell’indebolimento del dollaro. Anche per questo la Cina si oppone a una forte rivalutazione del renminbi, e chiede che gli USA difendano il valore del dollaro con un rialzo dei tassi di interesse.
Il temuto crollo a catena delle cattedrali della finanza è per ora stato scongiurato dalle iniezioni di miliardollari e dalle garanzie prestate da parte di governi e banche centrali. Alcune delle banche americane salvate, tra cui Bank of America, hanno riacquistato le quote governative per avere mano libera nella gestione del credito, degli investimenti e dei profitti.
Ma secondo l’ultimo rapporto del Fondo Monetario Internazionale l’azione di risanamento dei bilanci bancari è lungi dall’essere completata, con le banche USA che devono ancora riconoscere poco meno di metà delle perdite previste, e quelle europee che devono ancora riconoscerne più della metà: i profitti dei prossimi 18 mesi non basteranno a coprire le nuove perdite che emergeranno. Anche se le banche americane hanno notevolmente rafforzato la propria dotazione di capitale, la crisi non può dirsi ancora risolta.
Secondo il Global Financial Stability Report del FMI le perdite subite dalle banche a livello mondiale assommano a 2,8 trilioni di dollari (un importo superiore a quanto prodotto in un anno in Italia), di cui $ 1,5 trilioni devono ancora essere riconosciuti in bilancio. Se la ripresa fosse più lenta e meno sostenuta di quanto previsto, provocando altri fallimenti industriali, altre banche potrebbero divenire insolventi.
La crisi ha inoltre prodotto un aumento della concentrazione bancaria a livelli altissimi. Secondo Capital IQ e la Banca dei Regolamenti Internazionali le prime 10 banche del mondo hanno oggi il 70% delle attività bancarie mondiali, contro il 59% di tre anni fa. Il fallimento di una di queste banche comporterebbe un rischio sistemico tale che gli Stati devono impedirlo ad ogni costo, ma secondo Andrew Haldane della Banca d’Inghilterra, il sostegno offerto da USA e Gran Bretagna alle proprie banche nell’ultima crisi è stato pari a quasi tre quarti del PIL. In una prossima crisi gli Stati potrebbero non avere la capacità di raccogliere i fondi necessari. Per questo si sta discutendo la possibilità di obbligare le banche a redigere un “testamento” sulla destinazione delle attività in caso di fallimento…
La Banca Centrale Europea stima in 553 miliardi di euro le perdite delle banche della zona euro su prestiti e titoli per il periodo 2007-2010, di cui 187 M€ ancora da contabilizzare. Secondo l’Economist, le banche europee devono ancora reintegrare 357 miliardi di dollari per recuperare il capitale che hanno perso, importo peraltro inferiore a 6 mesi di profitti. Ma per consolidare la propria struttura e arrivare a un rapporto capitale/attività pari a quello delle banche USA, le banche europee avrebbero bisogno dell’enorme cifra di 2,8 trilioni di dollari. Resterebbero di conseguenza esposte a possibili nuovi contraccolpi della crisi.
L’economia USA sarebbe avvantaggiata anche dalla maggiore facilità che le imprese hanno a saltare l’intermediazione bancaria emettendo prestiti obbligazionari: queste emissioni negli ultimi mesi sono di oltre il 50% superiori alla media decennale, e il mercato obbligazionario privato capitalizza il 120% del PIL, contro il 50% della media del G-7 e il 16% della Gran Bretagna: in Europa vi è una molto più forte dipendenza delle imprese dal credito bancario. La crisi immobiliare continua
Anche la crisi immobiliare è tutt’altro che risolta, negli USA come in Europa. Secondo il FMI nel dopoguerra le fasi di ascesa dei valori immobiliari nelle metropoli sono durate mediamente 6 anni, con aumenti dei prezzi del 48%, mentre le fasi di discesa sono durate mediamente 5 anni, con cali del 24%. L’ultima fase di ascesa tuttavia è durata il doppio, quasi 12 anni, con un aumento dei prezzi del 124%, più che doppio della media storica. La fase di discesa in corso ha visto un calo solo del 19% dei valori immobiliari, per cui c’è ancora molto “spazio” per la loro riduzione (l’Italia viene citata tra i paesi con maggiore potenziale di calo), con tutte le conseguenze sui mutui e sulle banche che li detengono, direttamente e indirettamente (nella forma di CDO). Le stesse insolvenze sui mutui di immobili non commerciali, attualmente al 7,9%, sono ancora lontane dal 12% toccato nella crisi dei primi anni ’90. A fine marzo 2009 14 milioni di famiglie americane (il 27% di quelle con mutuo ipotecario) avevano debiti superiori al (diminuito) valore delle proprie case (secondo uno studio della Deutsche Bank questo numero salirà a oltre 20 milioni di famiglie), e quindi avranno convenienza a non pagare più le rate e cercare una casa in affitto. Già la quota delle famiglie proprietarie della casa è scesa di quasi due punti, al 67,6%, rispetto al 2004.
La caduta dei valori mobiliari e immobiliari ha significato lo sgonfiamento della “ricchezza” apparente delle famiglie americane: salita dai 42 trilioni di dollari del 2001 ai 64 trilioni del 2007, era ricaduta a 51 trilioni nel 1° trimestre 2009. Ciò ha dirette conseguenze sui consumi, anche perché soprattutto negli USA molte famiglie avevano ottenuto nuovi mutui per l’acquisto dell’automobile ecc. grazie all’aumento del valore della casa. Con lo sgonfiamento della bolla le banche chiedono indietro quei crediti, e le famiglie sono costrette a ridurre le spese e aumentare i risparmi, saliti da quasi zero al 5% a metà 2009. Primo bilancio
Nel complesso possiamo quindi concludere che la crisi è stata la più forte a livello mondiale dopo quella del 1929, ma una ripetizione della depressione degli anni ’30 è stata per ora evitata dal massiccio intervento degli Stati da un lato, e dall’esistenza di aree estese in cui è in corso un gigantesco processo di industrializzazione, che la crisi delle metropoli non ha arrestato, dall’altro. Mentre i profitti sono in risalita in tutto il mondo, la crisi viene pagata dal proletariato con milioni di disoccupati in più, che aumenteranno nei prossimi mesi, aumento della povertà, peggioramento delle condizioni salariali e lavorative.
Il sistema capitalistico ha tuttavia mostrato apertamente la sua instabilità e vulnerabilità a nuove crisi, e non è detto che gli Stati potrebbero arginarle quando anche i paesi oggi emergenti ne venissero travolti.
Occorre operare per la generalizzazione delle lotte di difesa di classe, perché l’esperienza di questa crisi entri nella coscienza dei lavoratori come consapevolezza della necessità di lottare per un mondo migliore, che potrà nascere solo sulle ceneri del capitalismo.