Moduli
· Home
· Abbonati al giornale
· Archivio
· insiemecontroilrazzismo
· Volantini

Chi è Online
In questo momento ci sono, 0 Visitatori(e) e 0 Utenti(e) nel sito.

Languages


English French Italian

N°16 Pagine Marxiste - Aprile-Giugno 2007
La guerra di Libia (II)
Pagine di storia italiana

Dopo la guerra di Libia del 1911 (vedi PM 12-13), il controllo su buona parte del territorio di Tripolitania e Cirenaica era stato ripreso dalle tribù ribelli, e la presenza italiana era rimasta limitata alle città di Tripoli e Bengasi. Dal 1926 il governo italiano avviò la riconquista della Libia, anche alla ricerca di uno sbocco occupazionale (colonizzazione agricola) per la popolazione italiana resa eccedente dall’esodo agricolo interno. Le operazioni militari vennero intensificate soprattutto nel 1930, con la nomina a governatore di Libia del generale Rodolfo Graziani, anche per impegnare in operazioni belliche parte dei disoccupati della crisi del 1929.

Si è trattato di alcune tra le pagine più infami della storia d’Italia, dell’Italia imperialista che nulla hanno da invidiare alle altre orrende pagine scritte dagli imperialismi spagnolo, portoghese, britannico, francese, belga, americano, russo, giapponese in varie parti del mondo. Terra bruciata, campi di concentramento, decine di migliaia di morti, una brutale repressione di un popolo che lottava per le proprie fonti di sostentamento e per l’autodeterminazione politica.

Anche per questo riteniamo nostro compito di comunisti e di internazionalisti diffondere la memoria di quelle vicende per favorire un movimento di opposizione all’imperialismo italiano e alle sue imprese di oggi e di domani.



Agli inizi del 1930, quindi quattro anni dopo l’avvio della riconquista, l’Italia stava ultimando la conquista della parte occidentale della Libia, la Tripolitania. Ma ad Oriente, nella Cirenaica (la zona più ricca), si sviluppano sin da subito movimenti di guerriglia da parte dei ribelli forti anche dell’appoggio dalla popolazione. La Cirenaica era già sfuggita al controllo diretto dell’amministrazione coloniale italiana, che preferì in un primo momento lasciare una forma di protettorato, salvo poi decidere di lanciarsi alla conquista integrale di quei territori. Mentre i profitti della colonia dove l’imperialismo italiano "avendo fatto il deserto lo chiamò pace" andarono a vantaggio di una ristretta cerchia di colonizzatori, i costi di mantenimento dell’esercito, per costruire porti, ferrovie e latifondi agricoli ricaddero sugli stessi lavoratori italiani.
Lo scontro tra gli occupanti e i ribelli stava assumendo sempre più il carattere di una continua guerriglia. In questo modo i ribelli cercavano di conservare il controllo sui territori adatti all’allevamento del bestiame, che costituiva la principale fonte di sostentamento e di ricchezza di queste popolazioni prevalentemente nomadi o semi-nomadi.
In quest’anno, sotto il governatorato di Badoglio, con la nomina a vicegovernatore di Rodolfo Graziani (il famigerato "macellaio degli arabi" come fu definito in seguito alla conquista della Tripolitania) la repressione ad opera delle truppe italiane si fece più intensa e si estese contro tutta la popolazione indigena, per colpire alla radice ogni focolaio di ribellione. Iniziarono così gli attacchi ai villaggi: se sospettati di connivenza con la guerriglia vennero distrutti, i loro pozzi riempiti di cemento, le riserve alimentari bruciate, gli animali sgozzati. Le truppe italiane provvidero alla decimazione del bestiame, ricorsero all’uso indiscriminato di bombardamenti all'iprite contro la popolazione (‘proibito’ dalla Convenzione di Ginevra del 1925), e fecero assiduamente ricorso al Tribunale Speciale Militare e alle sue sentenze esemplari contro ribelli e fiancheggiatori, veri o soltanto presunti, utilizzandolo sia come strumento repressivo che intimidatorio. Nei confronti di un popolo ‘incivile’ l’imperialismo italiano offriva continuamente lezioni di civiltà di tale genere.
Questa feroce repressione si dimostrò però inefficace a stroncare la tenace resistenza della popolazione che al contrario di quanto volessero gli italiani rendeva ancora più esplicita la sua resistenza alle pratiche di "pacificazione" del governo italiano.
E’ per questo che oltre alle rappresaglie, si procedette a deportazioni di massa di intere tribù da una località all’altra in luoghi dove si riteneva più facile controllarle. A questo scopo vennero costruiti campi di concentramento: 100.000 persone (quasi la metà di tutti gli abitanti!) vennero deportate nel sud bengasino e nella Sirtica, regioni notoriamente fra le meno ospitali, dove i reclusi, tra cui donne e anziani, in tali tremende condizioni saranno falcidiati dal tifo petecchiale, dalla dissenteria bacillare, dalla fame e dalla quotidiana razione di botte. La deportazione della popolazione aveva lo scopo non solo di togliere il sostegno ai combattenti, ma anche di liberare terre da distribuire a contadini italiani. L’aviazione e le truppe di terra italiane avrebbero controllato più agevolmente il territorio cirenaico, legittimate ad arrestare come "ribelle" qualsiasi libico trovato a circolare liberamente fuori dai campi. Il governo italiano trovò il modo per razionalizzare questo sterminio; il campo di concentramento diventava una ricca riserva di forza lavoro a basso prezzo da inserire nelle innumerevoli opere pubbliche (soprattutto strade) che si costruivano di pari passo col procedere all'occupazione del Paese che vennero costruite sul sangue di migliaia di libici.
Secondo fonti italiane i morti tra i ribelli per il periodo 1923-1931 sarebbero stati 6.500. Se si considerano però i dati del censimento fatto dagli stessi italiani nel 1928, che indica il numero degli abitanti della Libia in 225.000, e si vede poi il censimento del 1931 dove gli abitanti risultano essere 142.000 compresi gli italiani e i nuovi immigrati il quadro è di tutt’altre proporzioni. Tenendo conto dei libici che fuggirono dal Gebel (altopiano dell’Est della Libia) verso l'Egitto (10-15.000 persone) e del tasso di incremento demografico, il genocidio dovuto alla repressione italiana riguarderebbe 50.000 persone che crescono fino a 70.000 se ai dati italiani si sostituiscono quelli dell'antropologo Evans-Pritchard, che afferma: "Questo non è l'unico genocidio della storia delle conquiste coloniali, se ciò può consolare qualcuno, ma è certo uno dei più radicali, rapidi e meglio travisati dalla propaganda e dalla censura".1 Oltre a queste misure interne, Graziani fece costruire un reticolato permanente lungo oltre 200 km da Porto Badia a Giarabub per impedire il commercio delle popolazioni della Cirenaica con l'Egitto, dove come visto, molti libici si erano rifugiati. Alla sua costruzione, che venne compiuta in sei mesi, lavorarono 2.500 libici sorvegliati da 1.200 carabinieri.Una volta che la ribellione fu vinta, con l’impiccagione dell’anziano capo dei ribelli ed eroe nazionale libico, Omar Mukhtar, i sopravvissuti ai campi di concentramento, oltre a non avere più animali da allevare non poterono tornare nei luoghi d'origine sul Gebel perché questi erano destinati agli italiani (i quali erano in tutto duemila famiglie) essendo queste le zone più fertili.
I libici dovettero subire così la soppressione violenta delle condizioni della loro vita materiale e non solo. Privati degli animali, furono chiusi in riserve, accampamenti di tende in vista della costa, dove gli italiani potevano continuare a sfruttarli come manodopera semplice. Se gli uomini, venivano sfruttati nella costruzione di opere edili o nella pesca, le donne venivano forzatamente impiegate nell’uso di telai e materie prime da impiegare nella fattura di tappeti e tessuti. Il tutto fu presentato dalla stampa italiana come un’opera di beneficenza poiché questo tipo di campo di lavoro "assicura alla popolazione cirenaica un sicuro sostentamento" ("L’Azione coloniale"), in un ambiente dove "regna ovunque l’igiene e la pulizia" ("L’Oltremare").

In realtà l'imperialismo italiano attuò l’esportazione violenta di un modo di produzione che andò a destrutturare i rapporti sociali precedenti. Ai lavoratori libici veniva dato un salario di tre volte inferiore a quello degli italiani, fatto che se li poneva su un piano di costante subordinazione, allo stesso tempo li privava degli strumenti e delle conoscenze nei lavori tradizionali che venivano eseguiti con i vecchi metodi di lavoro. Lo scopo, come ricorda lo storico Del Boca, era inserire graduatamente la popolazione entro un rapporto sociale legato al salario e alla produzione per l'accumulazione e non per l'autoconsumo. L’imperialismo italiano attuò così una proletarizzazione violenta della popolazione libica.
La borghesia stessa ha smentito e smentisce chi crede che vi possa essere nel capitalismo, una giustizia ‘super partes’ garantita dalla "comunità internazionale"; a seguito della sciagurata campagna contro la Libia, nonostante nella Dichiarazione di Mosca del 1943 gli alleati si fossero impegnati a perseguire tutti i criminali di guerra e l’Onu stessa avesse istituito una Commissione d’inchiesta con il compito di individuare questi criminali (vennero incriminati Graziani e Badoglio), i crimini di guerra italiani in Libia rimasero sostanzialmente impuniti.
Lo Stato democratico del dopoguerra ha anzi protetto i macellai della Libia (il generale Graziani fu condannato a 19 anni di carcere, ma scontò solo quattro mesi e prima di morire divenne presidente onorario del MSI), e impedisce oggi alle nuove generazioni di conoscere tutta la sua storia. Coprire le colpe del passato è il modo migliore per anestetizzare le coscienze in vista dei massacri di oggi e di domani.
Se la "Repubblica nata dalla Resistenza" fosse veramente l’antitesi sociale e politica del regime fascista, essa avrebbe esposto alla pubblica esecrazione quei crimini contro l'umanità, si curerebbe di farli conoscere alle nuove generazioni per vaccinarle contro la loro ripetizione nel futuro, perché sappiano cosa ha significato il nome Italia e italiani per quei popoli, e stabilirebbe con loro rapporti su un piano di parità accogliendo come fratelli coi quali si ha un debito che mai potrà essere risarcito i loro emigranti sul suolo italiano.
Niente di tutto ciò. I governi della Repubblica, di ogni colore, hanno tenuto celate le nefandezze commesse in Libia e altrove prima dai governi liberali, poi da quelli fascisti dell’imperialismo italiano. La ragione non può che essere una sola: essi si riconoscono loro eredi e continuatori, perché ne esprimono i medesimi interessi di classe, dei medesimi gruppi economici fautori della politica coloniale e imperialista, che spesso portano ancora gli stessi nomi di allora ed hanno solo cambiato colore della loro camicia politica. Le attuali spedizioni militari italiane sono la continuazione di quella politica, pur nel mutato contesto internazionale. Il governo italiano è arrivato al punto di bandire da quasi trent’anni un film – girato da un regista arabo con attori di Hollywood – che sulla base dei documenti storici presenta e denuncia questa storia ("Il leone del deserto" di Mustapha Akkad, rimasto tragicamente ucciso in un recente attentato di terroristi islamici contro alberghi di Amman). Con questa censura i governi italiani non solo contraddicono la pretesa della libertà democratica di espressione, ma si dimostrano complici e conniventi con il passato di massacri e di rapina imperialista della classe dominante italiana.



Note:

1. A. Del Boca, Gli italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi, Milano, Mondadori, 1994.




L.P.

Pubblicato su: 2007-06-28 (1940 letture)

[ Indietro ]

 


You can syndicate our news using the file backend.php

   Get Firefox!