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N°16 Pagine Marxiste - Aprile-Giugno 2007
Cinesi in lotta a Milano


La "rivolta" della comunità cinese nella zona di via Paolo Sarpi a Milano è balzata sulle prime pagine di giornali e TV, come una delle prime manifestazioni di massa delle tensioni razziali in Italia. La Giunta Moratti ha fatto tutto il possibile per far esplodere la protesta, con un crescendo di imposizioni e vessazioni ai danni dei commercianti della "chinatown" milanese, che si ripercuotono tuttavia anche sui loro dipendenti. Per attrarre i voti di alcuni abitanti italiani della zona, infastiditi per le attività di carico-scarico merci, la giunta milanese di centro-destra aveva riesumato una legge fascista contro i barboni (divieto di trainare carrelli lungo i marciapiedi per non insudiciare i passanti) applicandola nel senso di costringere allo scarico senza l’ausilio di carrelli, ossia a spalla: un chiaro segno di civiltà…

La rivolta dei carrelli

Le stesse regole non erano fatte applicare in altre zone della città, nei confronti di commercianti italiani. Il carattere vessatorio e razzista dell’iniziativa appariva quindi in tutta evidenza ai destinatari. Per la Giunta l’inasprirsi della repressione serviva a dimostrare che nella sua campagna acchiappavoti sul tema "legge e ordine" "fa sul serio", come "fa sul serio" contro gli ambulanti di strada che fanno "concorrenza sleale" ai commercianti doc.
L’esasperazione per l’aggravio del lavoro, le frequenti multe per l’uso dei carrelli e per sosta vietata avevano portato a prime proteste, e a detta di membri della comunità cinese vi erano stati anche atti di violenza da parte di vigili nei confronti di cinesi che avevano contestato le sanzioni. L’ennesima multa, il ritiro della carta di circolazione, il caricamento a forza di una donna che protestava e della sua bambina di tre anni sull’auto dei vigili, ha dato il via ad una vera e propria rivolta dei cinesi che lavorano nel rione, con decine di feriti tra dimostranti e "forse dell’ordine".
La campagna di stampa che ne è seguita, da parte dei maggiori giornali e delle tv, locali e nazionali, è stata vergognosa nella sua tendenziosità e per il contenuto razzista. Tutti hanno pubblicizzato lo slogan della sindaco Moratti: "non ci sono zone franche", quando in realtà era il resto della città "zona franca" rispetto alle norme fatte applicare nella sola chinatown. I media hanno dipinto una comunità cinese "chiusa" (termine usato dal ministro dell’Interno Amato), occupata in traffici loschi, compatta nella conquista dei mercati e degli immobili, forza ostile in Italia.
Il consolato cinese a Milano è a sua volta intervenuto nella vicenda, allo scopo di sfruttarla per compattare in senso nazionalistico gli immigrati cinesi. Alla fine i commercianti hanno accettato il trasferimento dei loro commerci all’ingrosso in un’area periferica. Dalla vendita dei negozi in una zona centrale, per i quali molti hanno pagato muri e una consistente buonuscita, probabilmente contano di realizzare guadagni.

Fabbriche cinesi...

La realtà è un’altra. La vertenza dei carrelli è una questione interclassista, che ha coinvolto i commercianti ma anche i loro dipendenti, e la comunità cinese nel suo complesso che si è sentita discriminata, ma gli immigrati cinesi sono divisi in classi. Nella gran massa sono proletari, spesso nelle condizioni di lavoro e di vita più infime; c’è uno strato consistente di piccola borghesia commerciale, dall’ambulante al negoziante al ristoratore, e al di sopra di esso una media borghesia impegnata nell’industira, nella finanza e nel settore immobiliare, con attività sia in Cina che in Italia, che prospera sullo sfruttamento del proletariato cinese in patria come in Italia. Fino agli anni ’80-primi anni ’90, quando l’immigrazione cinese in Italia e soprattutto a Milano proveniva quasi unicamente dalla provincia dello Zhejiang, regione costiera centrale, spesso da aree rurali poverissime. I nuovi arrivati lavoravano in negozi, ristoranti o laboratori di proprietà di persone provenienti dalla stessa provincia, o loro discendenti, nella speranza di poter un giorno metter su bottega. Dalla metà degli anni ’90 è cresciuta l’emigrazione da altre province e in particolare dal Nord-Est (Liaoning e Jilin) e dallo Shandong, dove la drastica ristrutturazione delle fabbriche statali ha prodotto licenziamenti e disoccupazione. Molti di questi nuovi immigrati hanno iniziato a lavorare nelle "fabbriche cinesi" in Italia, termine che pronunciano con significato spregiativo perché significa una norma di 16 ore al giorno per 7 giorni la settimana, per 800-900 euro al mese in nero, senza contributi, senza assicurazione contro malattia e infortuni, senza ferie. La "fabbrica cinese" in Italia è un’altra faccia del successo del Made in Italy, dato che la maggior parte sono (sub) fornitori delle griffe italiane della moda, che si appropriano del boccone più grosso di questo disumano sfruttamento, mentre i "capi" cinesi svolgono il lavoro di aguzzini. Mentre nella zona Firenze-Prato il "distretto industriale" cinese sembra reggere, nel milanese molte di queste fabbriche cinesi avrebbero chiuso i battenti negli ultimi anni, in parte per trasferirsi in Romania dove nuovi flussi di immigrati cinesi possono essere sfruttati in condizioni ancora più "vantaggiose" di quelle della manodopera locale e, verosimilmente, con minori rischi di controlli. Le convenzioni europee prima e ora l'ingresso della Romania nella UE a pieno titolo garantiscono l'accesso ai mercati d'Europa e per molti, possiamo presumere, il mantenimento del marchio "Made in Italy". I lavoratori licenziati da queste fabbriche cinesi del milanese, in maggioranza donne, si sono trovati in gravi difficoltà, non conoscendo l'italiano e non possedendo un permesso di soggiorno. Lavori saltuari in nero presso famiglie sono per la maggior parte l'unica alternativa alla prostituzione. Altri immigrati dalle province del Nord hanno trovato lavoro presso imprese italiane, tramite le quali alcuni sono riusciti ad ottenere un permesso di soggiorno, ma altri non sono riusciti ad uscire dal circolo vizioso della precarietà e irregolarità, anche per mancanza di informazioni sulla possibilità di fruire di sanatorie e decreti flussi. Anche tra i "regolari" molti svolgono lavori tra i più gravosi e peggio pagati, spesso in "cooperative" che sono divenute la nova formula di supersfruttamento legalizzato del "soci lavoratori", non dovendo applicare le regole contrattuali dei lavoratori dipendenti.

... e italiane

Mentre scriviamo 100 lavoratori cinesi di una cooperativa che opera in subappalto riciclaggio di carta e plastica nell’area ex Alfa di Arese, organizzatisi con lo SLAI Cobas sono scesi in sciopero per una busta paga e un orario regolare. È l’altra faccia degli immigrati cinesi, che i media non pubblicizzano, che il consolato cinese ignora. È quella che unisce i lavoratori cinesi ai lavoratori italiani e d’ogni altro paese, nella comune lotta per la difesa di classe.






R.L.

Pubblicato su: 2007-06-28 (1639 letture)

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