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N°15 Pagine Marxiste - gennaio-marzo 2007
I comunisti e la questione palestinese


La questione palestinese si trascina da 60 anni tra guerre, repressioni, lotte disperate, ciniche manovre diplomatiche, oltre 4 milioni di profughi e decine di migliaia di vittime.
Il rifugio nella “terra promessa” di parte della diaspora ebraica perseguitata o osteggiata in Europa e in Nordafrica, entrato nel gioco degli imperialismi, si è trasformato nella cacciata di 700 mila arabi palestinesi, oggi 4,3 milioni con i discendenti, e in forme di oppressione spesso brutale per i restanti 2,5 milioni, nei territori occupati e in Israele.
Ogni comunista ha il dovere di denunciare l’oppressione del popolo palestinese che avviene nella striscia di Gaza, in Cisgiordania, nella stessa Israele, ma anche in Giordania, Libano, Siria dove vivono 2,7 milioni di profughi palestinesi senza diritti di cittadinanza. I comunisti impegnati nell’area non possono prescindere nella loro battaglia dalla lotta contro questa oppressione di carattere nazionale.
Riteniamo tuttavia che la soluzione della questione dal punto di vista del proletariato non possa essere racchiusa nella scelta tra le due formule “due popoli, uno Stato” o “due popoli, due Stati”, tra le quali si è sviluppato il dibattito nella sinistra, anche a livello internazionale. Non a caso sono le stesse formule usate anche nel confronto tra le potenze imperialiste e tra gli Stati della regione.
Il problema non è di forma di Stato, ma di rapporti tra le classi.
I comunisti sono contro ogni forma di oppressione, nazionale oltre che di classe. Essi combattono contro l’oppressione nazionale quale leva per far crescere la lotta di classe contro l’oppressione sociale, per il rovesciamento del dominio borghese. Solo nella società senza classi, sarà possibile una vera solidarietà anche tra le nazioni.
Le vicissitudini della lotta di liberazione del popolo palestinese non sono state favorevoli ai comunisti. Le correnti arabe che negli anni ’60 e ’70 si battevano per l’indipendenza del movimento a base proletaria e per il suo collegamento con il proletariato israeliano sono state sconfitte dalle fiammate del nazionalismo borghese reazionario. Gli attentati alle popolazioni civili israeliane, bambini compresi, hanno permesso alla borghesia israeliana di isolare e reprimere i gruppi di opposizione interna, tagliando ogni collegamento con le correnti internazionaliste palestinesi.
La stessa diaspora palestinese è stata alimentata e tenuta in caldo dagli Stati arabi che ne hanno rifiutato la naturalizzazione (pur non essendoci neppure il problema della lingua) imponendo il marchio del paria ai profughi, ai figli e ai figli dei loro figli – quasi il controcanto della stella di David. In nessun altro paese degli immigrati sono rimasti apolidi ancora alla terza generazione.
Da un lato i rifugiati servono come massa di manovra per far pressione su Israele. Dall’altro, costringendoli a vivere in gran parte nei campi e ad offrire la propria forza lavoro a prezzo anche inferiore a quello dei lavoratori “nazionali”, le borghesie di Giordania, Libano e Siria speculano così a loro modo sulla questione palestinese tenendola aperta – e non esitando a massacrare qualche migliaio di profughi quando sollevano la testa, da Settembre Nero a Sabra e Chatila. I rifugiati sono inoltre ostaggi anche delle grandi potenze, che tramite l’UNRWA gestiscono i servizi dei campi profughi, costituendovi loro basi clientelari.
Ostaggio delle potenze è a sua volta quel simulacro di Stato che è l’Autorità Nazionale Palestinese, il cui territorio gli israeliani calpestano, rastrellano, circondano di muri e filo spinato, mitragliano e bombardano a loro piacimento, e la cui amministrazione dipende in gran parte dalle donazioni – mai disinteressate – delle potenze imperialiste americana, europea e giapponese perché le grandi famiglie borghesi palestinesi preferiscono mettere altrove il loro denaro (vedi l’articolo precedente). L’ANP quindi nella sua lotta contro Israele dipende dalle potenze imperialiste, incluse quelle che sostengono Israele. La posizione intransigente di Hamas (non riconoscimento di Israele) vive a sua volta del riflesso del più debole sostegno dell’Iran.
E’ evidente che ogni assetto che emerga dall’attuale situazione – ammesso che non vi sia il puro e semplice proseguimento del caos degli ultimi anni – non potrà che essere il riflesso dei giochi e degli equilibri tra le potenze. Le spinte più radicali vengono raccolte dagli Stati che hanno interesse alla modifica degli equilibri regionali, oggi soprattutto l’Iran, con Hamas e Hezbollah, ma in modo strumentale ai propri interessi statali.
Il proletariato è oggi senza voce autonoma in quest’area, compresso anche dalla massa enorme dei disoccupati. I comunisti non possono pensare di utilizzare tatticamente alcuna di queste forze borghesi, o di allearsi con esse. Ne verrebbero schiacciati. La lotta per la liberazione del popolo palestinese può divenire un fattore di presa di coscienza del proletariato dell’area solo attraverso il collegamento dei suoi reparti nei vari paesi, Israele incluso, in una lotta che parta dai loro problemi concreti per arrivare a porre la questione del potere.
L’abbattimento dello Stato sionista basato sulla discriminazione etnica può essere opera solo del proletariato israeliano, di lingua ebraica o araba, affiancato dalle masse palestinesi. I comunisti si batteranno per la parità di diritti per tutti i lavoratori, e per l’apertura delle porte di Israele, ma anche per la piena parità di diritti dei palestinesi in tutti i paesi della regione, là dove essi desiderino risiedere.
Solo un movimento di liberazione che non minacci l’esistenza degli israeliani in quanto gruppo etnico-linguistico può trovare appoggio nel proletariato israeliano. Solo in presenza di un forte movimento di opposizione in Israele il proletariato palestinese potrà essere sottratto all’odio etnico fomentato dai nazionalisti laici ed islamici, e rivolgere la propria lotta contro lo Stato della classe dominante di Israele senza farsi strumento usa e getta di quelle arabe.
Solo un movimento a base proletaria capace di superare i ristretti confini del Vicino Oriente può rendersi indipendente dai condizionamenti imperialistici.
Quali forme statali dovrà assumere quest’area? Un unico Stato bilingue Palestino-israeliano? Due Stati, israeliano e palestinese? (Dentro quali confini?) O non piuttosto una federazione di tutti gli Stati che stanno tra l’Egitto, la Turchia? Non spetta a noi, oggi, dirlo. Riteniamo tuttavia che solo operando nella direzione prospettata la questione palestinese possa essere sottratta alle carte degli imperialismi e alle ciniche strumentalizzazioni delle borghesie, e la lotta di liberazione del popolo palestinese possa divenire un passo in direzione della liberazione di tutta l’umanità dall’oppressione del capitalismo.
Un tale movimento darebbe forza anche ai comunisti nelle metropoli imperialiste, ma è vero anche il converso: dei movimenti reali di opposizione al proprio imperialismo nelle metropoli darebbero forza a chi nel Medio Oriente sostiene che la lotta è tra classi e non tra popoli. E questo è il compito che compete ai comunisti anche in Italia.






Pubblicato su: 2007-02-28 (1740 letture)

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