Moduli
· Home
· Abbonati al giornale
· Archivio
· insiemecontroilrazzismo
· Volantini

Chi è Online
In questo momento ci sono, 0 Visitatori(e) e 0 Utenti(e) nel sito.

Languages


English French Italian

N°15 Pagine Marxiste - gennaio-marzo 2007
Guerra su più fronti in Iraq


Dopo quasi 4 anni di guerra e qualche centinaio di migliaia di morti, la situazione in Iraq appare lontana da una soluzione. Il macello quotidiano di popolazione civile continua senza sosta, centri di potere locali e internazionali fomentano le divisioni “settarie” con la violenza e le stragi, centinaia di migliaia di persone abbandonano le loro case temendo per la propria incolumità, l’attività economica rimane bloccata, le condizioni di vita della gente rimangono insostenibili.
Negli Stati Uniti, l’insuccesso della politica dell’amministrazione Bush in Iraq ha fatto perdere la maggioranza ai Repubblicani in Congresso e ha portato alle dimissioni del segretario alla Difesa D. Rumsfeld.
Ma George W. Bush ha deciso l’invio di altri 21.500 soldati in aggiunta ai 141 mila già presenti, con l’obiettivo di schiacciare la resistenza a Baghdad e consolidare il governo di Nouri al-Maliki (tra gli esponenti sciiti meno legati all’Iran).
La maggioranza democratica al Congresso sta sfruttando le difficoltà in Iraq a scopi elettoralistici; essa utilizza il controllo sul “cordone della borsa” per condizionare Bush, ma non sta portando avanti una campagna per il ritiro immediato, che significherebbe dichiarazione di fallimento per l’imperialismo americano. Nella storia americana, Vietnam incluso, le amministrazioni democratiche non si sono dimostrate meno guerrafondaie di quelle repubblicane.
La linea scelta dall’amministrazione respinge sia la via della “riconci-liazione” nazionale, con l’offerta di posizioni di potere ad esponenti del vecchio establishment baathista, che la “via diplomatica”, di apertura a Iran e Siria, sostenute da diversi circoli della politica estera americana. Sono scomparsi gli entusiasmi ideologici “neocon” sui miracoli della democrazia; rimane l’opzione militare. In particolare Bush-Cheney hanno respinto il nucleo principale delle proposte dell’Iraq Study Group, un gruppo “bipartisan” copresieduto, per la parte repubblicana, da James A. Baker III, già Segretario al Tesoro con Reagan e agli Esteri con Bush padre, texano e ben collegato agli ambienti petroliferi.

Opzione più violenza

L’Iraq Study Group, che rileva la riduzione della “capacità degli Stati Uniti di influenzare gli eventi in Iraq” e il crescendo di attacchi alle forze USA e governative irachene, oltre che dei morti civili, nel suo rapporto proponeva:
- sul piano internazionale, il coinvolgimento di Iran e Siria in una trattativa, per indurle a collaborare alla stabilizzazione del paese; un accordo di pace israelo-palestinese, con trattative dirette Israele-palestinesi-Libano-Siria;
- sul piano interno: l’accelerazione della “assunzione di responsabilità” da parte delle forze armate irachene e il passaggio delle forze USA a un ruolo di “supporto”, con un consistente numero di “consiglieri”; dal primo trimestre 2008 dovrebbe iniziare il ritiro graduale (ma nell’immediato anche lo Study Group propone un aumento delle truppe).
L’amministrazione Bush ha respinto di fatto ogni apertura verso l’Iran, rafforzando il “bastone” con il trasferimento di una seconda portaerei nel Golfo – una chiara minaccia contro l’Iran – senza offrire “carote”. Ha nominato il gen. Petraeus al comando delle truppe in Iraq, per portare avanti un piano di “bonifica” di Baghdad, con l’impegno di 90 mila uomini (12 divisioni irachene, di cui 10 sciite e due curde, secondo Die Welt), 10 mila per ognuno dei 9 settori in cui la città è stata divisa. R.M. Gerecht, dell’American Enterprise Institute, un think tank conservatore che appoggia Bush, così ne interpreta la strategia: la mediazione con i baathisti-sunniti non sarebbe praticabile, perché comporterebbe la distruzione del “centro sciita”, base di supporto per gli americani. D’altra parte i sunniti moderati verrebbero travolti ed eliminati da quelli intransigenti da un lato, e dagli sciiti dall’altro (in particolare nell’esercito). Per pacificare il “triangolo sunnita” egli sostiene che occorre “spezzare la schiena” ai ribelli. Ciò comporterebbe “l’occupazione congiunta delle città arabe sunnite da parte di americani e sciiti. Se la comunità sunnita non si è gettata in una disperata opposizione «dominio o morte», verrà a patti una volta che il nucleo duro sia stato neutralizzato e che sciiti e curdi permettano loro l’accesso a una quota sufficiente della ricchezza petrolifera. Le squadre della morte sciite hanno certamente insegnato ai sunniti di Baghdad che c’è di peggio che non le truppe infedeli americane nei loro quartieri”. Gli americani dovranno prima schiacciare la resistenza sunnita, poi rivolgersi contro le milizie irregolari sciite, a partire da quelle del movimento di Moqtada al Sadr, che se sarà intelligente non darà battaglia. Il grosso del “lavoro” dovranno farlo le truppe americane. Se fungessero solo da supporto agli iracheni, finirebbe con “un disastro”.1 Gerecht usa il linguaggio crudo della violenza imperialista, senza orpelli democratici. Sulla stessa linea Fouad Ajami, della Johns Hopkins University, afferma che al regime anglo-sunnita deve succedere quello “americano-sciita”.
Emergono alcuni problemi reali. La debolezza dell’esercito regolare iracheno, oltre che dalla mancanza di quadri sperimentati è dovuta anche alla diffidenza degli americani, che non hanno dotato il nuovo esercito sciita di mezzi di trasporto, di armi pesanti e di forze aeree, per mantenerlo dipendente dagli americani nella logistica e nella copertura aerea, nel timore che possa sottrarsi al controllo americano e rivolgere le armi contro gli occupanti. Bush avrebbe promesso ad al Maliki maggiori poteri per il controllo delle forze armate (che sono di fatto sotto comando americano), ma nella nomina del comandante iracheno della nuova offensiva su Baghdad gli americani hanno respinto il candidato di al Maliki (gen. Mohan al-Freiji) e imposto il loro candidato, generale Abboud Gambar.

Al Sadr collabora contro la resistenza sunnita

Il governo di al Maliki ha inoltre offerto copertura, fino alla fine del 2006, alle varie milizie sciite, incluse quelle della fazione di Al Sadr, parte integrante della coalizione governativa con 6 ministri. Queste milizie (spesso in collaborazione con settori della polizia ufficiale da essi controllati) hanno costituito gli “squadroni della morte” che hanno dato la caccia ai sunniti alimentando la spirale di assassinii, torture, stragi di civili, e detengono il controllo del territorio in molte aree.
Moqtada al Sadr ha saputo utilizzare le sue bande reclutate tra gli strati più poveri della popolazione per contrattare la propria posizione nell’esecutivo e nella spartizione delle risorse. Adotta toni nazionalisti e anti-americani, ma dopo gli scontri con gli americani nel 2004 l’attività del suo “esercito del Mahdi” si è concentrata contro la resistenza sunnita. Alla fine di novembre 2006 aveva cercato di alzare la posta, organizzando il boicottaggio di governo e parlamento per protesta contro il vertice tra il primo ministro al Maliki e Bush ad Amman. Il 3 dicembre annunciava: “lanceremo la Jihad contro gli americani se a gennaio non trasferiranno subito agli iracheni tutti i poteri della sicurezza… e Bush non comincerà il ritiro dei suoi soldati”. Contemporaneamente però annunciava: “ci stiamo preparando a una grande battaglia contro i sunniti sostenuti dai terroristi e da al-Qaida… il capo degli ulema sunniti, Haret al Dhari, appoggia al-Qaida e ha impedito la ricostruzione della moschea di Samarra facendo uccidere tecnici e operai che avevo mandato con i soldi raccolti tra i fedeli di Najaf e Kerbala. È amico dei sauditi che hanno detto di essere pronti a finanziare i terroristi sunniti. Sono stato per un giro diplomatico nei paesi arabi: ho constatato che sono tutti nemici degli sciiti”.2
Nei giorni di questa intervista le truppe regolari irachene davano manforte all’“esercito del Mahdi” per cacciare la resistenza sunnita dalla sponda sinistra del Tigri. Poco dopo le bande di al Sadr si scontravano con l’esercito regolare per il controllo di una città sciita nei pressi di Najaf, ma il 20 gennaio (dopo che il governo aveva fatto arrestarne 400 militanti) il blocco di al Sadr annunciava la ripresa dell’attività nel parlamento e nel governo, avendo ottenuto come salvafaccia la nomina di una commissione parlamentare per l’esame delle proprie richieste, tra cui un calendario per il ritiro degli americani. Il 5 febbraio Falah Hassan, deputato e portavoce della fazione di al Sadr, lamentava il ritardo del piano americano-governativo per l’offensiva “finale” contro la resistenza sunnita e dichiarava: “noi chiediamo che il piano venga attuato al più presto possibile perché i terroristi stanno oltrepassando ogni limite nei loro infami attacchi”.3
Negli stessi giorni in cui al Sadr invocava l’offensiva USA-governativi, americani e servizi di sicurezza iracheni facevano assassinare alcuni capibanda locali di al Sadr, rei di avere condotto azioni contro le truppe regolari o gli americani.

Le attenzioni dei vicini

La citata intervista a Moqtada al Sadr evidenzia un protagonista poco nominato della partita irachena: l’Arabia Saudita. Essa è schierata con la frazione sunnita irachena, resistenza inclusa, temendo l’espansione dell’influenza iraniana tramite il predominio sciita, e a metà gennaio ha minacciato l’intervento nel conflitto per impedire lo schiacciamento della minoranza sunnita. Diverse fonti sostengono che già da tempo le moschee saudite organizzano l’invio di volontari a combattere nella resistenza irachena; ora l’Arabia starebbe organizzando l’armamento della minoranza sunnita di Bassora (200 mila persone), per impedirne la cacciata in un clima di crescente pulizia etnica che si diffonde in tutto il paese, e altrettanto potrebbe fare a Baghdad. I sauditi temono inoltre che la riscossa sciita possa contagiare la minoranza correligionaria nell’Arabia orientale, un’area ricca di petrolio.
A metà gennaio il Segretario di Stato americano, Condoleezza Rice, e il nuovo Segretario alla Difesa, Robert Gates, hanno intrapreso missioni nel Medio Oriente per ottenere l’appoggio degli Stati arabi al piano americano, sottolineando l’obiettivo comune di contenere l’Iran. Ma senza la riammissione dei sunniti nella spartizione del potere e della rendita petrolifera, difficilmente gli Stati arabi potranno svolgere ruoli collaborativi.
Anche la Turchia ha più volte espresso il proprio interesse per la situazione irachena, prioritario anche rispetto all’ingresso nella UE. Il governo turco ha dichiarato che non accetterà il referendum, previsto a fine anno, sull’annessione della città petrolifera di Kirkuk alla regione curda. Il parlamento turco ha discusso piani di attacco militare per impedire l’annessione. Il pretesto è dato dalla consistente minoranza turcomanna (turcofona) di Kirkuk, ma il vero – e dichiarato – motivo è impedire che la regione curda si trasformi in uno Stato autonomo, con proprie risorse petrolifere, in grado di fungere da polo di attrazione per le popolazioni curde in Turchia (e Iran e Siria). A Kirkuk troviamo i partiti arabi sciiti e sunniti schierati coi turcomanni contro i curdi, ma questi avrebbero già realizzato il “ritorno” di circa 200 mila curdi cacciati negli anni ’70 e ’80, e l’espulsione di altrettanti arabi, assicurandosi la vittoria nel referendum.
Se nei confronti dell’Iran non vi sono segnali di apertura americana (mentre all’interno dell’establishment iraniano vi è crescente opposizione alla linea di sfida sostenuta dal presidente Ahmadinejad), vi è discussione nell’Amministrazione sull’atteggiamento da tenere nei confronti della Siria, accusata di alimentare la resistenza irachena attraverso il proprio confine “poroso”. Il presidente siriano Bashir Assad ha invitato gli USA a trattare con la Siria se vogliono “fermare la violenza”. Qui entrano in campo Israele e le alture del Golan.
L’Iran tiene un basso profilo ufficiale sull’Iraq, con il cui governo ha d’altra parte allacciato importanti relazioni economiche e anche collaborazioni militari. Le sue avances per un accordo con gli americani sull’Iraq sono state respinte: gli americani puntano ad un “proprio” governo sciita iracheno, non lo vogliono in compartecipazione con l’Iran. Per questo vorrebbero estromettere l’Iran, accusato di fornire armi e quadri alle milizie sciite, e sono stati arrestati diversi diplomatici di Tehran. Ma il tentativo di isolare economicamente l’Iran trova forti resistenze presso gli europei, i giapponesi, i cinesi e i russi, che hanno un forte interscambio commerciale con l’Iran e grossi investimenti nel gas e petrolio iraniani.
La guerra per ora fredda contro l’Iran da parte degli USA è anche un braccio di ferro con i concorrenti degli americani nell’area. Le banche tedesche e italiane hanno cessato di effettuare operazioni in dollari per conto delle banche iraniane, ma continuano ad intrattenere rapporti in euro. Gli organismi pubblici degli Stati europei che assicurano l’export continuano a finanziare l’export in Iran. Gli USA hanno finora sospeso le rappresaglie sul mercato americano previste contro le imprese che investono in Iran. La Russia ha continuato le sue forniture di missili all’Iran, nonostante le proteste americane.

Europei in attesa

Francia e Germania sono a loro volta pronte a raccogliere i frutti delle difficoltà americane. I francesi cercheranno di far valere gli accordi stipulati da ELF con Saddam Hussein per la prospezione e sfruttamento di due campi petroliferi. Il primo ministro francese De Villepin, nella tradizione gaullista ha dichiarato senza mezzi termini che “gli USA hanno fallito in Iraq, e tutte le truppe straniere dovrebbero andarsene dal paese”.4
La Germania nella versione Merkel è più contenuta, ma il responsabile per la politica estera del gruppo CDU-CSU Eckart von Klaede afferma che devono aumentare le esportazioni di petrolio dall’Iraq all’Europa. Occorre accelerare la costruzione dell’oleodotto Nabucco che dovrà portare in Europa petrolio dall’Asia Centrale e Iran, raccogliendo anche quello iracheno. I tedeschi pensano di utilizzare i curdi che hanno studiato in Germania per creare un istituto culturale tedesco. Un’associazione imprenditoriale tedesca sta preparando una conferenza economica tedesco-irachena per giugno. È stato ipotizzato che i tedeschi chiedano risarcimenti in Iraq se i loro affari in Iran dovessero essere compromessi dalle iniziative americane.
Anche l’Italia è un forte giocatore, sia in Iran che in Iraq, dove ha lasciato una delegazione economica per curare gli interessi delle imprese italiane agli appalti e alle concessioni petrolifere, a partire da Nassiriya.

La lotta per la rendita petrolifera

Il Ministero del Petrolio iracheno ha predisposto un progetto di legge sugli idrocarburi, che è stato sottoposto al governo per l’approvazione. Il progetto prevede la ripartizione della rendita petrolifera tra governo centrale e province-regioni in proporzione alla popolazione. Le concessioni petrolifere verrebbero aperte alle compagnie internazionali; i contratti stipulati dal regime di Saddam sarebbero riesaminati. Francia, Russia, Italia e Cina dovrebbero quindi ricontrattarli con il governo iracheno – e con gli americani.
Non è detto che questa proposta di legge venga approvata. Essa toglie alle regioni le prerogative sulle nuove scoperte petrolifere previste dalla Costituzione. La Regione autonoma curda si è già arrogata queste prerogative, stipulando contratti di concessione con compagnie estere, disconosciuti dal governo centrale, cui non intende cedere poteri. La borghesia “sunnita” a sua volta in base alla proposta di legge avrebbe una sua quota dei proventi petroliferi intorno al 20% pur occupando un’area con poche riserve di petrolio conosciute, ma sarebbe per essa una sconfitta, rispetto al controllo quasi totale esercitato per decenni. Nel Sud sono inoltre cresciute correnti autonomistiche, appoggiate dall’Iran, che puntano al controllo dei maggiori giacimenti ancora da sfruttare.
La ricchezza petrolifera permette alla borghesia irachena – o a chi ne controlla il territorio – di appropriarsi di importanti quote di plusvalore prodotto dal proletariato altrove nel mondo, ma grava come una maledizione sull’Iraq. Per il petrolio la borghesia irachena si è lanciata in due guerre, contro l’Iran nel 1980 e contro il Kuwait nel 1990, che hanno dissanguato il paese, l’hanno travolto e ridotto all’isolamento internazionale, preparando il terreno per l’invasione americana. Ora la lotta per la rendita petrolifera, che oggi rappresenta il 70% circa del reddito nazionale e la quasi totalità delle entrate statali, esaspera la lotta politica, perché è il potere politico, il controllo militare delle risorse e non l’attività economica produttiva in sé, che permette di appropriarsene.
L’Irak d’altra parte non è un paese arretrato. L’occupazione militare ha portato alla chiusura di 172 grandi fabbriche a capitale statale, che secondo fonti giornalistiche occupavano 600 mila lavoratori, in quanto “non competitive” dopo 12 anni di embargo e di mancati investimenti, ma probabilmente anche per togliere una base materiale di potere ai baathisti. In questo modo è stata aggravata la situazione del proletariato, accentuandone la disoccupazione e riducendone la forza sociale. Ciononostante il proletariato iracheno ha più volte dimostrato capacità di lotta, sottraendosi alle divisioni religiose ed etniche fomentate dalla borghesia. Per quanto indebolito, il proletariato iracheno se in grado di organizzarsi autonomamente è l’unica forza sociale in grado di ribaltare la situazione contrapponendosi sia alle forze di occupazione che alle frazioni reazionarie della borghesia in lotta tra loro.



Note:

1. Reuel Marc Gerecht, Petraeus Time, Wall Street Journal, 17/01/2007
2. Intervista a Il Sole-24 Ore del 2/12/2006
3. Associated Press, 5/2/2007
4. Sole 7/02/2007




C.M.

Pubblicato su: 2007-02-28 (1641 letture)

[ Indietro ]

 


You can syndicate our news using the file backend.php

   Get Firefox!